Il nostro welfare ha tre velocità
Economia

Il nostro welfare ha tre velocità

Scandinave le piccole regioni del nord a statuto speciale, Europee  le altre, mentre il welfare meridionale nonemerge  dalla fascia mediterranea

Per un paese a elevata longevità demografica e scarse opportunità lavorative, com’è l’Italia, le politiche pubbliche di protezione sociale hanno sempre rappresentato una rassicurazione collettiva molto sentita. Certo, siamo cresciuti grazie all’iniziativa di milioni di soggetti, ma una tale vitalità privata ha potuto usufruire di politiche volte a coprire, con le risorse pubbliche, molti dei bisogni individuali. Ancora oggi, dopo tagli e restrizioni, la nostra welfare society registra performance positive, anche se con forti disuguaglianze settoriali e territoriali. Il Censis e il gruppo Unipol, nell’ambito del programma Welfare Italia, misurano, attraverso decine di variabili, i livelli del benessere sociale, comparandolo a livello globale ed europeo.

La più recente elaborazione dell’indicatore sintetico colloca l’Italia, con Francia e Germania, nella fascia europea medio-alta, non molto distanziata dai paesi che costituiscono i riferimenti d’eccellenza come Svezia, Danimarca e Paesi Bassi. Una tale valutazione potrebbe contrastare con la percezione corrente dell’opinione pubblica. Eppure da noi registrano performance invidiabili alcuni dei fattori ritenuti decisivi a livello globale, come un buon servizio sanitario aperto a tutti. Anche il sistema pensionistico per lungo tempo ha garantito prestazioni d’estremo favore, la cassa integrazione ha aiutato lavoratori e imprese, mentre opera l’assistenza al disagio sociale con il decisivo contributo delle reti di solidarietà associative, cooperative e volontarie.

Tuttavia, innegabili sono le molte disparità che dividono l’Italia in tre tronconi: sono scandinave le piccole regioni settentrionali a statuto speciale, europee le altre regioni del Centro-Nord, mentre il welfare meridionale non riesce a emergere dalla fascia mediterranea. L’altra distorsione del nostro sistema di protezione sociale riguarda la gamma delle prestazioni, centrate sui fattori primari di sopravvivenza, ma ancora troppo debole nel sostegno allo sviluppo umano integrale.

Siamo, infatti, molto indietro quanto a livelli d’istruzione (55 per cento della popolazione adulta con al più la licenza media), un’alta dispersione scolastica e universitaria, bassi tassi d’occupazione giovanile e femminile, politiche abitative inesistenti, mentre poco significativo è l’aiuto alle fasce di povertà e disagio familiare. Questa nostra welfare society è a rischio perché le domande d’intervento crescono mentre la disponibilità di risorse pubbliche diminuisce. Siamo un Paese che già destina alla protezione sociale risorse pubbliche pari al 28 per cento del pil, solo la Francia spende di più tra i grandi paesi europei.

Ma negli anni della crisi abbiamo perso ben 114 miliardi quanto a capacità di produrre, 7 per cento di pil in meno dal 2007. Come potremo fare a mantenere gli attuali livelli di prestazioni sanitarie e pensionistiche? Per le nuove generazioni la pensione sarà un miraggio, ma già oggi l’assistenza dei non autosufficienti è a rischio, come molte prestazioni sanitarie gratuite. La pressione fiscale è già insopportabile e il debito nazionale ancora al di sopra dei parametri di sicurezza. La soluzione non potrà che ritrovarsi in un uso più razionale delle risorse. Per la spesa sanitaria e assistenziale è necessaria una razionalizzazione che eviti gli sprechi. Ma anche le famiglie devono dimostrare una maggiore preveggenza impiegando i risparmi per integrare quelle prestazioni che il pubblico sta riducendo, e che sempre più verranno ridotte.

La spesa privata volontaria in Italia rappresenta solo il 2,2 per cento dell’ammontare destinato al welfare, in Germania è il 6,3, in Francia il 7,8 e nel Regno Unito il 17,5. Solo la responsabilizzazione familiare può consentire di guardare con maggiore serenità alla copertura dei rischi sociali che ci riserva il prossimo futuro.

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Giuseppe Roma