Economia

È sceso lo spread (ma forse è quello sbagliato)

Ipnotizzati dal differenziale con i tassi tedeschi, che migliora non per meriti nostri, perdiamo terreno con Spagna, Grecia & C.

Non passa giorno senza che i nostri governanti ci raccontino che stiamo uscendo dal tunnel, che l’Italia sta per voltare le spalle alla crisi e che la ripresa è finalmente lì, a portata di mano: come con l’ancora di uno skilift, si tratta solo di afferrarla, di coglierla al volo, perché il momento è questo e non ce ne sarà un altro. Morale: il governo non può cadere, perché se l’Italia sta uscendo dalla crisi è anche per merito di questo governo, e una sua caduta vanificherebbe tutti gli sforzi e i sacrifici fatti fin qui dagli italiani. Un ragionamento, a quanto pare, condiviso dal presidente della Repubblica, che non perde occasione per ribadire la pericolosità di una crisi e di un ritorno alle urne.

C’è una piccola falla logica, però, nel ragionamento. Il fatto che una crisi sarebbe disastrosa per l’economia italiana non implica affatto che l’azione di governo sia il fattore cruciale che ci sta facendo uscire dalla recessione. La situazione potrebbe anche essere un’altra, e cioè: questo governo sta facendo pochissimo per affrontare il vero problema del Paese, che è la sua bassa competitività, ma farlo cadere peggiorerebbe le cose, proprio perché ben poco è stato fatto per affrontare i problemi strutturali dell’Italia. Se Mario Monti ed Enrico Letta avessero messo in sicurezza i conti dell’Italia e avviato un vero risanamento della nostra economia, oggi non saremmo terrorizzati per le conseguenze di una caduta del governo. Il fatto che la maggior parte degli analisti veda invece con grande preoccupazione una crisi di governo è il segno che l’Italia è ancora considerata un paese a rischio.

Hanno ragione gli analisti? Secondo me sì, e proprio perché il governo Letta-Alfano non ha affatto modificato la percezione dell’Italia come paese a rischio. Per difendere l’operato dell’esecutivo e la credibilità internazionale dell’Italia si argomenta che, da quando c’è finalmente un governo, lo spread fra titoli pubblici italiani e tedeschi è sceso di circa 30 punti: era 279 nella settimana prima del giuramento del nuovo governo, era sceso a 248 la settimana scorsa. Ma è un dato fuorviante. Lo spread è diminuito solo perché il rendimento dei titoli di stato tedeschi (ovvero: quanto costa alla Germania finanziare il suo debito pubblico) è aumentato ancora più del rendimento dei titoli di stato italiani. Il che, a sua volta, dipende dal fatto che, in una situazione in cui i pericoli di collasso della moneta unica sono (temporaneamente?) percepiti come meno gravi che nel 2011-2012, gli investitori non sono più disposti a prestare soldi alla Germania a tasso zero, come è avvenuto nei momenti di maggiore panico sui mercati, quando si pensava solo a mettere al sicuro il capitale, senza badare agli interessi. Dunque, nessun particolare merito dell’Italia, ma semplicemente un allentamento delle tensioni sui mercati finanziari.

La riprova? La prova regina è lo «spread dello spread», ossia l’andamento dei rendimenti dei nostri titoli di stato non già rispetto a quelli della Germania, bensì rispetto a quelli degli altri «Pigs» (Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna). Se l’Italia in questi ultimi mesi avesse effettivamente innestato la marcia giusta, mostrando una credibile determinazione nell’affrontare i nostri problemi strutturali, lo spread dell’Italia si muoverebbe meglio di quello degli altri Pigs. E invece no, non è proprio così. Fra la settimana anteriore all’insediamento del nuovo governo (fine aprile) e oggi, il nostro spread rispetto all’insieme dei quattro Pigs non è migliorato, anzi è peggiorato leggermente, di 24 punti base. Solo rispetto al Portogallo siamo migliorati un po’, mentre verso l’Irlanda nulla è cambiato, e verso Spagna e Grecia le cose vanno oggi decisamente peggio che alla fine di aprile.

È soprattutto l’andamento del nostro spread rispetto a quello della Spagna che dovrebbe suonare come un campanello d’allarme. Tradizionalmente i nostri titoli di Stato costano, in termini di interessi, circa 50-100 punti base di meno dei titoli spagnoli. Solo in un’occasione il nostro spread è stato peggiore di quello della Spagna: nell’estate del 2011, quando la sfiducia nell’Italia portò lo spread oltre i 500 punti base, e Silvio Berlusconi venne sostituito da Monti. Allora, per circa otto mesi (dall’agosto del 2011 al marzo del 2012), comprare italiano costò di più, molto di più, che comprare spagnolo, perché gli investitori temevano che l’Italia facesse default. Poi, per quasi un anno, dalla primavera del 2012 alle elezioni del febbraio 2013, la situazione ritornò normale: comprare italiano era tornato a costare meno che comprare spagnolo, quasi 100 punti base di differenza. Subito dopo il voto, tuttavia, di fronte all’incapacità di formare un governo, le cose sono cambiate ancora: lo spread dello spread, in particolare il differenziale con la Spagna, è di nuovo peggiorato, portando il costo del finanziamento del nostro debito pubblico non lontano da quello del debito iberico.

E durante i quattro mesi del governo Letta? Spiace dirlo, ma la realtà è che lo spread dello spread si è limitato a oscillare, in barba alle ottimistiche affermazioni dei rappresentanti del governo, sempre attenti al differenziale con la Germania, e sempre dimentichi che, in tempi di relativa stabilità dell’euro, il nostro termine di paragone più appropriato sono gli altri Pigs. Questa settimana, tuttavia, è arrivato il segnale più preoccupante: il nostro vantaggio rispetto alla Spagna si è di nuovo annullato, proprio come era successo l’estate di due anni fa. Non resta che sperare che le analogie si fermino qui, e il seguito sia un po’ diverso da quello drammatico di due estati fa. 

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Luca Ricolfi