Le promesse tradite di Renzi
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Economia

Le promesse tradite di Renzi

Non solo i proclami non mantenuti, ma soprattutto una manovra-fotocopia di quella di Letta. E molto recessiva

Gustavo Piga è professore di economia politica alla Università di Roma Tor Vergata, candidato alle elezioni europee

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Pare che in Africa, in America, in Asia, i gufi siano considerati uccelli di malaugurio. Ma nella cultura occidentale sono anche simbolo di saggezza. Questo mi consola, perché senza dubbio per quel che sto per scrivere passerò per un gufo, seguendo l’appellativo coniato dal premier Matteo Renzi per tutti i critici del suo Documento di economia e finanza (Def), approvato dal nostro Parlamento in un battibaleno. Documento che appunto mi convince poco, malgrado apprezzi non poco la dinamicità del nostro presidente del Consiglio.

Una premessa sul voluminoso Def: da sempre, in esso contano poco o niente le centinaia di pagine di inchiostro sulle future riforme, che si possono fare anche senza inserirle nel documento. È un po’ di aria fritta, come è sempre stato, con la differenza che stavolta a queste riforme si attribuisce il magico potere di creare una "crescita in più" straordinariamente alta nel futuro lontano, addirittura 1,6 per cento di crescita in più di Pil nel 2018. Meglio concentrarsi sul domani prossimo. Anche perché in realtà il Def vale solo perché fissa "nella pietra" i paletti macro della legge di stabilità d’autunno (valori di deficit, debito, entrate e spese) dai quali quest’ultima non potrà più discostarsi, nonché il percorso delle stesse variabili nei prossimi 3 anni, da cui discostarsi non sarà più facile a causa della autorizzazione che dovrà dare al riguardo l’Europa. Se come tale lo giudichiamo, il Def di Renzi e Pier Carlo Padoan è minato da quattro difetti esplosivi che rischiano di tornarci indietro come un boomerang nei prossimi mesi.

Primo difetto: il Def è scritto in larga parte dall’Europa, contrariamente alla convinzione che "lo decide Claudia", frase che tappezza in tutte le città i poster della campagna elettorale del partito del premier in questi giorni. Prova ne è che il Def del team Renzi-Padoan consegna al Paese delle finanze pubbliche future di fatto identiche a quelle proposte dai predecessori Enrico Letta e Fabrizio Saccomanni. Leggere per credere: Renzi-Padoan nel Def aumentano le tasse da 745 miliardi di euro nel 2014 a 841 nel 2017. E lasciandole nel 2017, rispetto al governo precedente, che così austero mi era parso (ed era stato) al 47,2 per cento di Pil, rispetto al 47 per cento di questi ultimi. Come è possibile, direte, visto il calo delle tasse previsto in busta paga di 80 euro? È vero, chapeau, va attribuita al governo Renzi la scelta di ridurre il carico fiscale sotto i 25 mila euro, ma senza dimenticare che parte del finanziamento di queste verrà dall’aumento di altre imposte e che, soprattutto, va attribuita allo stesso governo Renzi la scelta di non modificare gli aumenti di entrate previste da Letta e Saccomanni, che apparentemente fanno comodo, visto che sono stati in larga parte confermati.

E le spese direte voi? Renzi-Padoan le fanno calare dal 50,6 per cento di Pil del 2014 al 48,1 del 2017 (0,5 per cento di Pil di interessi in meno, 0,9 di stipendi in meno, 0,6 di pensioni in meno, 0,6 di acquisti di beni e servizi in meno) mentre Letta e Saccomanni le facevano calare nello stesso periodo dal 50,7 del Pil al 48 per cento. Una riduzione significativa, ma identica e già sanzionata dai governi precedenti: i cali delle pensioni dovuti in larga parte alla riforma Fornero del governo Monti, mentre le riduzioni di stipendi, come fa notare la corte dei Conti, sono da ascrivere addirittura al rinnovo delle norme sul blocco del turnover e delle remunerazioni pubbliche del ministro Renato Brunetta. Tutto cambia perché nulla cambi, dunque? In realtà qualcosa peggiora pure. Il governo Renzi, che tanto aveva fatto sperare con il suo intendimento di rimettere in sesto il futuro del Paese con la ristrutturazione delle scuole, ha ridotto se possibile ulteriormente rispetto a Letta e Saccomanni la quota di investimenti pubblici, il futuro del Paese appunto. Dal 3 per cento di pil degli anni 90, Padoan e Renzi dichiarano a tutti che la loro intenzione è di ridurli ulteriormente, all’1,4 del 2017, contro l’1,6 di Letta e Saccomanni.

Secondo difetto: la scommessa azzardata che la manovra "europea" di cui sopra restauri la crescita. A leggere il Def si nota che Renzi-Padoan scommettono che le minori tasse previste siano più espansive (+0,4 per cento) di quanto non sia recessiva la spending review (-0,2). Una doppia scommessa: che gli 80 euro siano effettivamente consumati in pizze e non risparmiati, e che i tagli di spesa siano veri tagli di sprechi e non di domanda di beni e servizi che servono al Paese. Certo che, per esempio, delegare alle regioni il taglio della spesa sanitaria è il passo giusto, visto che solo loro possono trovare gli sprechi: ma sapranno veramente trovarli senza un cambio organizzativo radicale, contro la corruzione e verso la competenza delle stazioni appaltanti? Per ora il giudizio non può che rimanere ampiamente sospeso, al contrario dell’ottimismo imperante.

Terzo difetto: è un Def decisamente recessivo. I numeri sono chiarissimi: a fronte delle richiesta all’Europa di una "tregua" nel 2014, tutta da approvare (a giugno), per permettere di dare gli 80 euro, il governo si impegna a recuperare un tale ritardo con raddoppiata energia austera nel 2015. Così, prepariamoci a ridurre il deficit pubblico sul Pil 2015 dal 2,6 all’1,8 per cento con un aumento dell’avanzo primario, la differenza tra entrate e spese al netto degli interessi, che dovrà salire dal 2,6 al 3,3 per cento del Pil. È previsto crescere addirittura al 5 per cento del Pil nel 2018 per garantire il calo del debito pubblico richiesto dal Fiscal Compact. In questo periodo così gramo di domanda interna, il governo ne sottrae dunque alle imprese una ulteriore parte, aumentando le tasse e diminuendo le spese (senza sapere se saranno veri tagli di sprechi). È vero, pare che "coraggiosamente" abbiamo chiesto di posticipare il pareggio di bilancio strutturale dal 2015 al 2016, ma se nel 2015 non sarà pari a 0, la consolazione è magra: ci impegniamo che sia pari a 0,1 per cento di Pil, briciole di differenza.

Quarto difetto: il sogno che non c’è. Che tipo di società ci consegna Renzi tra qualche anno con questo Def? Con meno investimenti pubblici per tutte le nostre Pompei, meno soldi per le università per far tornare i nostri giovani più brillanti, un’amministrazione pubblica sempre più piccola e vecchia, una pressione fiscale scesa solo dal 44 al 43,3 per cento del Pil, basterà avere meno province, meno auto blu, e un debito pubblico al 120 per cento per avere dato la svolta buona che mette l’Italia al centro del progetto europeo?

Difficile crederlo. C’è solo da sperare che chi oggi ha le carte in mano, l’Europa ottusamente austera, sia sconfitta alle prossime elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo: forse allora, e solo allora, avremo un cambiamento epocale di impostazione della politica europea, verso crescita e solidarietà. Non ho dubbi che a quel punto, con la sua velocità, Renzi saprà cogliere al volo l’occasione.

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Gustavo Piga