Privatizzazioni: i pro e i contro dei piani di Saccomanni
Economia

Privatizzazioni: i pro e i contro dei piani di Saccomanni

Il governo vuol liberarsi delle partecipazioni pubbliche per fare cassa. Ma vendendo le quote di Terna o Eni, perderebbe una montagna di dividendi

Un piano di privatizzazioni entro la fine dell'anno. E' il programma rilanciato ieri dal ministro dell'Economia, Fabrizio Saccomanni , che ha ribadito ancora una volta la volontà del governo (e del premier Enrico Letta) di vendere una parte dei gioielli di stato per ridurre l'indebitamento pubblico.

PRIVATIZZAZIONI: IL TESORETTO DELLO STATO

Le privatizzazioni, ha sottolineato il ministro dell'Economia, non serviranno per finanziare nuove spese ma per alimentare una specifica voce del bilancio statale. Si tratta del fondo di ammortamento del debito pubblico che, già in passato, ha beneficiato dei consistenti flussi finanziari ricavati con le grandi privatizzazioni messe in cantiere negli anni '90. Ora, dopo quell'enorme piano di dismissioni durato oltre un decennio, da vendere c'è rimasto ben poco (almeno nel breve periodo): a parte gli immobili pubblici (che richiedono un'operazione complessa) ci sono le quote azionarie in alcune società partecipate dal ministero dell'Economia o dalla Cassa Depositi e Prestiti (Cdp), come Eni, Terna, Finmeccanica, oltre a Enel, le Poste e le Ferrovie, anche se Saccomanni non ha escluso neppure una parziale dismissione della Rai (con tanto di polemiche al seguito).

COSA PUO' VENDERE IL GOVERNO

Benché il governo dichiari di volersi muovere ad ampio raggio, nel breve periodo il piano di privatizzazioni si concentrerà probabilmente su pochissime aziende. Secondo le indiscrezioni circolate nelle settimane scorse (e interpretando anche quanto detto dal premier Letta in una recente intervista al Washington Post), saranno inizialmente escluse le Ferrovie, le Poste, ma anche altre due società più facilmente vendibili come Enel e Finmeccanica. Finiranno invece sul mercato la partecipazione in Fincantieri (valutata attualmente tra 1,5 miliardi di euro e poco più di 2 miliardi) oltre una parte delle quote detenute dal governo (anche attraverso la Cassa Depositi e Prestiti) nel colosso energetico Eni e in Terna, la società che gestisce la rete elettrica nazionale. Per entrambe le aziende, si ipotizza una cessione di una fetta assai minoritaria del capitale (4,3% per Eni e 4,9% per Terna).

UNA MONTAGNA DI DIVIDENDI (IN MENO)

Pesando sul piatto della bilancia i costi e i benefici di queste due operazioni, non è detto però che il risultato sia positivo. Anzi, alla fine le vendite rischiano di rivelarsi un gioco a somma zero (o addirittura con un bilancio negativo), almeno nel medio e lungo termine. Eni e Terna, infatti, sono due campioni del dividendo, cioè distribuiscono ogni anno una montagna di utili che, in parte, finiscono anche nelle casse dello stato. Vendendo proprie quote, dunque, il governo incasserebbe subito un piccolo tesoretto da impiegare nella riduzione del debito pubblico ma dovrebbe rinunciare a una montagna di dividendi nei prossimi anni. Nel caso di Terna, per esempio, una cessione del 4,9% del capitale frutterebbe nel complesso circa 350 milioni di euro, su una capitalizzazione complessiva della società attorno ai 7 miliardi. Con il ricavato dell'operazione, insomma, il debito pubblico italiano (che ammonta a oltre 2mila miliardi di euro) riceverebbe poco più che il solletico, mentre il risparmio sugli interessi passivi pagati dal Tesoro sarebbe di circa 15-20 milioni annui. Nello stesso tempo, invece, il ministero dell'Economia (attraverso la Cdp) perderebbe quasi 20 milioni di dividendi ogni 12 mesi.

Ancor più rischioso è il risultato dell'eventuale privatizzazione di una quota di Eni: una società che, tra il 1995 e il 2009, ha garantito allo stato ben10-15 miliardi di euro di dividendi complessivi. Vendendo il 4% circa del capitale, il ministero dell'Economia incasserebbe subito circa 3 miliardi di euro, risparmiando tra 120 e 150 milioni di euro all'anno di interessi sul debito. Nello stesso tempo, però, il ministero dell'Economia dovrebbe rinunciaread almeno 150-160 milioni di euro di utili, distribuiti ogni 12 mesi dal gruppo guidato da Paolo Scaroni. Le azioni del colosso petrolifero italiano, infatti, sono tra le più redditizie di Piazza Affari in termini di cedole. Non a caso, molti investitori (a differenza del governo Letta) se le tengono ben strette.

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Andrea Telara

Sono nato a Carrara, la città dei marmi, nell'ormai “lontano”1974. Sono giornalista professionista dal 2003 e collaboro con diverse testate nazionali, tra cui Panorama.it. Mi sono sempre occupato di economia, finanza, lavoro, pensioni, risparmio e di tutto ciò che ha a che fare col “vile” denaro.

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