Economia

Povero ceto medio

Sempre più colpita da crisi e imposte, la middle class italiana riduce la quota di ricchezza

La vulgata corrente è che crescono le diseguaglianze tra la parte alta e quella bassa della stratificazione sociale. I ricchi diventano sempre più ricchi e i poveri sempre più poveri. Da qui discende il ritorno alla logica redistributiva come ricetta ritenuta valida per attenuare le differenze e l’indubbio crescente disagio sociale.

Le cose in realtà, a mio parere, sono più complesse e se vogliamo, persino foriere di una maggiore ingiustizia sociale. Il mito del ceto medio ha animato l’America degli anni Cinquanta e Sessanta con le sue auto station wagon, la casa con giardino, gli elettrodomestici e le vacanze in Florida. Certo ha reso dinamica l’economia dei consumi di massa, ma soprattutto ha dato forma compiuta ai sentimenti e all’immaginario sociale. Una traiettoria da tempo interrotta, tanto che Barack Obama ebbe successo, nella sua prima elezione 4 anni fa, proprio proponendosi di ridare sostegno a una middle class trascurata e in difficoltà, sotto i colpi delle arrembanti economie asiatiche. Lo stesso François Hollande ha vinto in Francia anche promettendo di battere il «declassamento» cui, negli ultimi anni, è stato soggetto il ceto medio di quel paese. Da noi il mito dell’imborghesimento è venuto più tardi (a partire dagli anni Settanta) e durato meno che altrove, perché già nei primi anni Duemila risultava abbastanza appannato. Quello che non funziona più è la capacità di gestire il turnover familiare e di rigenerare i meccanismi di accumulazione.

Partiamo da un dato. Il reddito disponibile pro capite delle famiglie italiane nell’ultimo ventennio ha avuto un andamento a campana ribassata. Nei primi anni Novanta viaggiava sui 17,5 mila euro, è cresciuto fino agli anni Duemila quando è rimasto stabile per poi ritornare al punto di partenza con la crisi finanziaria. Ha avuto certamente influenza l’impatto traumatico della recessione, ma in realtà lo smottamento è iniziato ben prima, causato soprattutto da una mutata composizione della struttura sociale. I nuovi nuclei familiari che entrano nella vita produttiva, siano giovani coppie o immigrati, sono a basso reddito, ovvero decisamente più poveri di quelli più anziani o che si estinguono. E questo con una certa trasversalità che contraddice la contrapposizione statica fra classi alte e basse. I giovani che guadagnano meno dei loro genitori, sono spesso indistinguibili quanto a condizione sociale della famiglia d’origine. Inoltre, guadagnare poco fa venire meno i meccanismi su cui si era basato il circuito che aveva largamente diffuso il benessere familiare ovvero elevata propensione al risparmio e alla patrimonializzazione. Le famiglie di giovani sotto i 35 anni oggi hanno una capacità di risparmio praticamente nulla. Di conseguenza non possono accumulare risorse per creare quel piccolo patrimonio, generalmente la casa, su cui il ceto medio italiano ha basato la sua sicurezza e il suo carattere egualitario.

Le famiglie sempre più piccole hanno annullato quell’effetto da piccola «Spa» che, combinando più attività, poteva massimizzare l’accumulazione di risparmio. Se guardiamo agli ultimi vent’anni sia dal punto di vista del reddito annuale che della ricchezza posseduta, a perdere di più non sono gli strati più bassi ma proprio la parte centrale e maggioritaria del corpo sociale. Il ceto medio nel periodo 1991–2010 ha perso circa il 4 per cento del reddito disponibile complessivo annuo, mentre le famiglie con meno di 15 mila euro annui lo 0,2 per cento. Ancora più chiara è la situazione in termini di ricchezza (immobili, titoli, azioni). Le famiglie di mezzo in vent’anni sono passate dal detenere i due terzi della ricchezza a meno della metà. Fenomeno dovuto in parte anche al passaggio, specie negli anni Novanta, di una quota di ceto medio nella parte più affluente della società, non tanto per un miglioramento dei meccanismi di mobilità sociale, quanto per lo strabordare di uno Stato generoso, assistenziale e sprecone. Erano, infatti, gli anni in cui il pil rallentava e la spesa pubblica aumentava.

Per tutte queste ragioni, legate a specifici comportamenti individuali e istituzionali, le diseguaglianze in Italia non sono determinate solo dalla crescita continua e sostenuta dell’economia, come avviene nei paesi anglosassoni, che sono certamente più diseguali di noi. In Italia una lunga fase di crescita debole si combina con un peggioramento della composizione sociale. Se aumentano individui e famiglie, ma la torta resta sempre la stessa o addirittura diventa più piccola, sono i nuovi commensali a farne le spese. La rivolta verso le alte retribuzioni della casta politica o dei manager bancari è più una questione etica che concreta. Certamente non è lì la chiave per migliorare le condizioni di chi oggi sta indietro e cioè i giovani.

Non potendo redistribuire quello che non c’è, l’imperativo categorico è di eliminare una pesante cappa di condizionamenti politico-burocratici che impediscono alle nuove generazioni di mettere a frutto i propri talenti e al Paese di ripartire.
* direttore del Censis

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Giuseppe Roma