Patrimonio pubblico, tutti i gioielli degli enti locali che Monti può vendere
Economia

Patrimonio pubblico, tutti i gioielli degli enti locali che Monti può vendere

Secondo uno studio della Uil le società di capitali partecipate da enti locali sono ben 5.500. Costano 1,8 miliardi di euro l'anno e liberalizzare significherebbe risparmiare non poco. Ma oggi il rischio è svendere

Immobili da un lato , partecipazioni societarie dall’altro. Sono i due forzieri a cui Mario Monti ha deciso di attingere per fare cassa ed evitare agli stremati contribuenti italiani un’altra manovra da lacrime e sangue. Che sia il precipitare del rischio di un attacco speculativo contro la nostra permanenza nell’euro oppure qualche calcolo aggiornato sul valore della «argenteria di famiglia», sta di fatto che l’ex rettore della Bocconi pare proprio aver deciso di cimentarsi con una grande campagna di dismissione di patrimonio pubblico . E’ lui stesso, a quanto risulta a Panorama.it, a seguire direttamente il dossier, con la collaborazione di alcuni tecnici del ministero dell’Economia.

Vendere che cosa? E come? L’operazione non è semplice. Per quel che riguarda le partecipazioni di comuni, province e regioni (difficile pensare che si vogliano cedere le quote di Eni, Enel o Finmeccanica), bisognerà individuare le procedure adatte e un veicolo societario (pare Cassa depositi e prestiti) in cui far confluire le quote per ottenerne la valorizzazione il più in fretta possibile. Ma è certo che se vuole pescare da questo patrimonio il professore ha solo l’imbarazzo della scelta.

Secondo un recente studio della Uil le società di capitali partecipate da enti locali sono ben 5.500 e continuano ad aumentare di numero (erano quasi mille di meno nove anni fa). Inutile dire che ognuna di esse ha i suoi bravi consiglieri di amministrazione per un totale di circa 20.000 persone e una spesa complessiva che raggiunge la mostruosa cifra di 1,8 miliardi di euro l’anno.

Solo i 13 comuni più grandi, secondo un’elaborazione della società di consulenza Kpmg su dati del ministero della Pubblica amministrazione, detengono quote in ben 284 società. I dati (gli ultimi disponibili) sono del 2009, ma restano del tutto attuali, visto che negli ultimi anni i comuni italiani non hanno venduto partecipazioni neanche sotto tortura.

Roma ne ha 26, Milano 21, Torino batte tutti i record con più di 40, anche se bisogna dire che è ha avviato un piano consistente per la cessione di quote non necessarie al controllo. Nel documento allegato in fondo a quest’articolo trovate l’elenco con tutti i nomi, le quote di partecipazione e quel che i comuni versano a ciascuna ogni anno per pagarne i servizi. C’è dentro un po’ di tutto: dalle aziende di trasporti, acqua e gas, a situazioni che sembrano del tutto estranee al ruolo delle pubbliche amministrazioni.

Prima di vendere l’ideale sarebbe liberalizzare i relativi mercati ora gestiti in condizioni di monopolio. Ma a quanto pare su questo grava una specie di maledizione. Ci provò il ministro degli Affari regionali Linda Lanzillotta durante la scorsa legislatura e a momenti faceva cadere il governo Prodi prima del tempo per l’opposizione feroce di Rifondazione Comunista. Ci ha provato il ministro per gli Affari europei del governo Berlusconi Andrea Ronchi, e ha dovuto vedersela prima con la guerriglia della Lega e poi con il referendum sull’acqua.

Ora ci prova anche Monti. In teoria a partire dalla fine del 2012 nessuno comune potrà affidare servizi in house a società partecipate o controllate (con l’eccezione dell’acqua , per cui la liberalizzazione è stata esclusa dal referendum). Peccato che i comuni non abbiano neppure cominciato a predisporre i bandi, per cui è fin troppo facile prevedere che le gare non si faranno neanche stavolta.

In compenso, forse, si venderanno le società, o più probabilmente una parte delle quote detenute in esse dai comuni. Per realizzare quanti soldi? Difficile dirlo, ma secondo un’indagine effettuata nel 2009 dall’ufficio studi di Mediobanca se nel 2008 le sole 6 città con più partecipazioni (Milano, Roma, Torino, Napoli, Brescia e Bologna) avessero venduto la quota eccedente il 30% (sufficiente a mantenere il controllo) avrebbero incassato circa 2,5 miliardi di euro.

Peccato non averlo fatto allora. Vista la crisi dei mercati, oggi bisognerà accontentarsi di parecchio meno.

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Stefano Caviglia