Della Valle, i suoi primi 60 anni
Economia

Della Valle, i suoi primi 60 anni

L'ultima sfida del fondatore della Tod's: diventare un "allegro anzianotto" senza perdere il gusto della provocazione.

Se un banchiere a 80 anni può essere definito «arzillo vecchietto», utilizzando le categorie Inps, un imprenditore a 60 può tranquillamente, e senza offesa, essere chiamato «allegro anzianotto». Ecco: il 30 dicembre Diego Della Valle ha compiuto 60 anni e può essere iscritto nella categoria degli «allegri anzianotti». E, si sa, dopo i 60 anni le caratteristiche comportamentali si accentuano e si approfondiscono, si radicalizzano, si diventa meno flessibili, meno inclini al compromesso. Considerando che quando era ancora nei 50 ha detto che sarebbe meglio per il Paese che gli Agnelli continuassero a «sciare, veleggiare...», che Giovanni Bazoli e Cesare Geronzi sono «arzilli vecchietti», che Sergio Marchionne è un «mago Otelma» che non sa fare auto, che i politici dovrebbero «vergognarsi», c’è solo da immaginare che cosa dirà adesso che ne ha 60. E se quando aveva 50 anni ha comprato la villa che fu di Billy Joel, la barca che era di John Fitzgerald Kennedy e una casa galleggiante grande come una piccola petroliera, ha votato Clemente Mastella, è stato l’imprenditore preferito di Michele Santoro e ha litigato con Silvio Berlusconi, chissà che cosa ha in mente ora che ne ha 60. 

Ma raccontare l’allegro anzianotto attraverso le spigolature di cui è stracolma la sua vita è ingeneroso perché Della Valle è uno dei più eclettici, geniali e intraprendenti industriali in giro per l’Italia. Di una generazione della quale fanno parte i Renzo Rosso, le Miuccia Prada e i Nerio Alessandri, partiti da (letteralmente) niente e oggi a capo di quelle multinazionali tascabili che tengono in vita l’indotto di piccole e medie imprese che a loro volta realizzano il 92 per cento del pil italiano.

Il nonno Filippo inizia come aiuto ciabattino a 7 anni lavorando stracci pressati e pneumatici usati nella cucina di casa. Il padre, Dorino, si mette in proprio e prepara scarpe artigianali per grandi marchi, costose ma non costosissime, belle ma non cult. Diego ha una gran voglia di fare: molla giurisprudenza a Bologna e a metà degli anni 70 va a fare uno stage in America dove ha la sua più importante e redditizia intuizione: le scarpe a pallini. Sulla loro nascita lui stesso alimenta storie mitologiche come quella secondo cui il nome Tod’s gli sarebbe stato ispirato aprendo a caso l’elenco telefonico di Boston. In realtà l’ispirazione gli viene da uno strano paio di calzature costruite in Portogallo. Il padre le guarda e gli dice di buttarle. Invece lui si applica, porta i pallini a 133, usa la pelle della migliore qualità, ne triplica, quadruplica il prezzo e quelle scarpe diventano glamour finendo ai piedi di ricchi (Gianni Agnelli) e famosi (Luca Cordero di Montezemolo), big dello spettacolo (Kevin Costner, Richard Gere, Tom Cruise e Michael Douglas) e dell’imprenditoria (Lee Iacocca). Poi lancia le Hogan e i giacconi Fay, e a 34 anni fattura 200 miliardi di lire con 45 di utile. È già miliardario. 

Poi a 40 anni accetta un posto nel consiglio d’amministrazione dell’Iri «per fare le scarpe ai boiardi di stato» e lì accade qualcosa di incomprensibile: si trasforma. L’imprenditore ricco e schivo, illuminato e riservato, si mette in testa di fare il guastatore dell’establishment che, all’epoca, era la grande finanza del Nord. Esce dall’Iri urlandogli «burocrati!», spende 100 miliardi per l’1,2 per cento della Banca commerciale italiana, ma si accorge che la Mediobanca conta su 13 consiglieri su 14 e di essere lui il quattordicesimo. Se ne va sbattendo la porta. Spunta al congresso del Pds mentre le sue Tod’s finiscono ai piedi di re Juan Carlos, Sharon Stone, Mel Gibson e Romano Prodi (vabbè). Ormai sono un fenomeno mondiale. 

Entra in Mediobanca, per riformarla, ma lo stritolano fra patti di sindacato e accordi segreti, e lui se ne va un’altra volta sbattendo la porta. Poi entra in Generali, per migliorarne la redditività. Non lo lasciano fare e lui se ne va sbattendo la porta. Poi entra in Rcs, sia perché ha il pallino (sempre di pallini si tratta) dell’editoria sia perché pensa che abbia un grande futuro, non gli fanno toccare palla e lui attacca Bazoli e Geronzi chiamandoli arzilli vecchietti. Geronzi è in pensione, anche per merito suo, Bazoli invece no, ma, essendo eterno, c’è ancora tempo. 

Il fatturato del gruppo sale con una progressione geometrica. Non ne sbaglia una: le sue fabbriche diventano 5 e i laboratori che lavorano in esclusiva 35. Nel 2000 ha 100 negozi nei posti più «in» del mondo. Va in borsa ed è un trionfo. Poi scivola sulla politica: finanzia Rinnovamento italiano di Lamberto Dini e diventa amico di Clemente Mastella, quintessenza della Prima repubblica. Compra a prezzo di saldo la Fiorentina, lui che è marchigiano, non per fare soldi, ma per avere l’occasione di sfidare la Juventus degli Agnelli e batterla. Risale dalla C2 alla A fino a quando, sfiorata dall’inchiesta Calciopoli, la squadra viene penalizzata.

I suoi amici d’affari (riesce a tenere insieme due parole incompatibili) sono due: Montezemolo e Luigi Abete. Con il primo ne ha fatte tante, ma l’impresa più grande si chiama Italo, il treno veloce in concorrenza con Trenitalia. Vorrebbe fare soldi, ma per ora non c’è riuscito: la competizione con i treni pubblici e l’Alitalia privata ha scombussolato i piani. Però, anche in questo caso, c’è tempo. Con il secondo sta rilanciando Cinecittà. Abete è anche presidente della Bnl: nel 2006 Della Valle incassa una plusvalenza di 250 milioni di euro vendendo le sue azioni della banca alla francese Bnp Paribas. Nel 2009 ne guadagna altri 350 dalla vendita del 15 per cento dei grandi magazzini del lusso Sacks.

Della Valle è originale, anticonformista, provocatorio. Con l’ossessione della Fiat, sebbene nel 2000 sia stato testimone dello sposo insieme con Agnelli alle seconde nozze di Montezemolo. L’anno scorso ha definito Sergio Marchionne, un altro che si è fatto da solo e che quindi dovrebbe sentire antropologicamente simile, un «furbetto cosmopolita». Dall’alto di un maglioncino nero che nulla ha a che vedere con l’elegante kitsch di Diego, il manager italocanadese gli ha risposto: «Con quanto lui investe in un anno in ricerca e sviluppo noi non ci facciamo nemmeno una parte di un parafango. La smetta di rompere le scatole». Invece lui continua, soprattutto con John Elkann, succeduto al nonno alla presidenza del Lingotto. Parole irriferibili.

Della Valle è un umanista. Quando era un riservatissimo imprenditore, chiamò in azienda gli allievi di Giorgio Fuà, grande economista di sinistra-centro, teorico dell’«azienda totale» di Adriano Olivetti e consigliere di Enrico Mattei. Restaura il borgo natìo, Casette d’Ete, frazione di Sant’Elpidio a Mare, a sua volta frazione di Fermo, assume donne e artigiani, costruisce la casa per chi non ce l’ha, crea un asilo, una megapalestra, una biblioteca, un auditorium, reinventa il welfare aziendale in puro stile olivettiano (paga i libri di scuola per i figli dei dipendenti, le visite specialistiche e gli interventi chirurgici) e dialoga con Francesco Alberoni. 

A uno così il «bene comune» sta a cuore davvero, ma quando decide di spendere 25 milioni per restaurare il Colosseo, il simbolo dell’Italia (l’altro, secondo lui, è una scarpa con 133 pallini), deve subire due anni di intoppi burocratici e l’aggressione di quelli per i quali bene comune vuole dire statale, il cui portavoce mediatico è quel Michele Santoro che lo invita spesso e volentieri a interpretare la parte dell’imprenditore illuminato, che si è fatto da sé, che è fuori dai giochetti di Palazzo. Insomma: l’imprenditore buono e anche un po’ eccentrico con il suo chilo di braccialetti esibiti come un paninaro anni 80 e la sciarpa arrotolata come fosse una cravatta attorno a colletti che sembrano le ali di un B-52. A proposito di aerei: sul suo ha stampato tre lettere, «Ddf», che stanno per «Dignity, duty, fun». Nel 2012 il suo gruppo ha fatturato 963,1 milioni e ne ha realizzati 145,5 di utile. Ecco: se ha fatto tutto questo quando aveva 50 anni, c’è solo da immaginare cosa potrebbe fare ora che ne ha 60.  n

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Marco Cobianchi

Sono nato, del tutto casualmente, a Milano, ma a 3 anni sono tornato a casa, tra Rimini e Forlì e a 6 avevo già deciso che avrei fatto il giornalista. Ho scritto un po' di libri di economia tra i quali Bluff (Orme, 2009),  Mani Bucate (Chiarelettere 2011), Nati corrotti (Chiarelettere, 2012) e, l'ultimo, American Dream-Così Marchionne ha salvato la Chrysler e ucciso la Fiat (Chiarelettere, 2014), un'inchiesta sugli ultimi 10 anni della casa torinese. Nel 2012 ho ideato e condotto su Rai2 Num3r1, la prima trasmissione tv basata sul data journalism applicato ai temi di economia. Penso che nei testi dei Nomadi, di Guccini e di Bennato ci sia la summa filosofico-esistenziale dell'homo erectus. Leggo solo saggi perché i romanzi sono frutto della fantasia e la poesia, tranne quella immortale di Leopardi, mi annoia da morire. Sono sposato e, grazie alla fattiva collaborazione di mia moglie, sono papà di Valeria e Nicolò secondo i quali, a 47 anni, uno è già old economy.

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