Deficit più alto del previsto e nessun taglio alle spese
Economia

Deficit più alto del previsto e nessun taglio alle spese

L'Istat ha comunicato che nei primi nove mesi del 2013 il rapporto deficit/pil è salito dello 0,3% al 3,7%. Tutto come previsto: avevamo raccontato a settembre che a Palazzo Chigi già si parlava di un +3,4%

UPDATE 9 dicembre 2013: Nei primi nove mesi del 2013 il rapporto tra deficit e Pil è stato pari al 3,7% con un incremento di 0,3 punti percentuali rispetto al corrispondente periodo dell'anno precedente. Lo ha comunicato questa mattina l'Istat. In realtà noi lo avevamo anticipato a settembre in questo articolo dove raccontavamo che a Palazzo Chigi già si sussurrava di un rapporto deficit/pil al 3,4% quando ufficialmente si parlava di un 3,1%.

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Uno spettro s’aggira per Palazzo Chigi. Anzi due: una parola, manovra, e un numero, 3,4. Nessuno s’azzarda a pronunciarli ad alta voce, a partire dal capo del governo, Enrico Letta, che ha dichiarato un rapporto deficit/pil del 3,1 per cento. Ma nei ministeri e in Parlamento non si fanno illusioni. «Altro che 3,1, siamo almeno al 3,4 per cento e rischiamo di chiudere l’anno con uno sforamento anche maggiore» spiega a Panorama una autorevole fonte tecnica che non vuole essere virgolettata.

Che la situazione sia grave lo si capisce proprio da questo: anziché la solita corsa alla dichiarazione, in questi giorni si registra il contrario. Tutti parlano, calcolano, fanno previsioni, ma nessuno vuole essere citato. «Sappiamo da giorni» dice un parlamentare del Pd con un incarico istituzionale «che entro la fine dell’anno servono almeno 6 miliardi. Ci vuole una manovra, ma la sola idea fa a pugni con il quadro politico». Non meno drastico è un suo pari grado del Pdl: «Dobbiamo chiudere il rubinetto della spesa, rinunciando anche a provvedimenti già in discussione in Parlamento. E non è detto che basti».

Il ministro dell’Economia, Fabrizio Saccomanni, è stato finora l’unico a rompere la regola del silenzio, minacciando via Corriere della sera di dimettersi se i partiti di maggioranza continueranno a dire cose diverse in pubblico e in privato.

Ma le critiche cominciano a colpire anche lui. Se avesse avuto più coraggio, dice qualche osservatore più cattivo, le cose non sarebbero a questo punto. Per compensare le minori entrate dovute all’abolizione della prima rata Imu e al rinvio dell’aumento dell’Iva avrebbe dovuto far digerire agli italiani la classica manovra estiva. Invece ha tamponato con aumenti delle tasse indirette, anche le più spicciole: nuove accise sui carburanti, sul tabacco, sugli alcolici, sui fiammiferi. L’aumento dei bolli. Unica novità, la tassazione delle sigarette elettroniche. Così non ha disturbato il manovratore, Enrico Letta, che andreottianamente ha tenuto a galla il governo promettendo di tutto a tutti.

Basta guardare i provvedimenti omnibus in esame al Senato in questi giorni, che spaziano dall’ennesimo rifinanziamento per Pompei ai regalini per i musei cari al Pd (8 milioni a testa solo per il Maxxi di Giovanna Melandri e i Nuovi Uffizi per Matteo Renzi), dalla stabilizzazione di decine di migliaia di precari della pubblica amministrazione (bocciata con parole di fuoco dalla commissione Lavoro del Senato) all’assunzione di 1.000 vigili del fuoco.

E che dire dell’istituenda nuova Agenzia per la coesione territoriale, di cui non si capiscono i costi né la dotazione effettiva, ma per cui viene autorizzata l’assunzione a tempo indeterminato di 120 nuove unità «altamente qualificate»? Neppure dalla sbandierata revisione delle piante organiche del settore pubblico sono arrivati segnali di rigore. I 7-8 mila dipendenti teoricamente in soprannumero sono ancora tutti al loro posto e già si parla di prepensionarne una parte con le regole ante riforma Fornero.

Più che di spending review bisognerebbe parlare di «missing review». La revisione della spesa aspetta ancora un responsabile. All’inizio dell’estate pareva fosse imminente l’arrivo di Piero Giarda, nel frattempo sparito dai radar. Idem per il taglio dei trasferimenti alle imprese del rapporto Giavazzi, chiuso in un cassetto dal governo Monti e lì rimasto.

Entro il 15 ottobre bisognerà trovare il modo di richiudere la voragine, almeno sulla carta. Quel giorno il Consiglio dei ministri (se ancora ce ne sarà uno) dovrà varare la legge di stabilità da presentare anche a Bruxelles, dove l’Italia rischia una nuova procedura di infrazione. Le carte a disposizione del governo sono poche e tutte dolorose: la seconda rata dell’Imu, che vale 2,4 miliardi, l’aumento dell’Iva dal 21 al 22 per cento (risparmiando 1 miliardo rispetto all’eventuale rinvio), altri aumenti delle accise, più un intervento ulteriore che nessuno osa ancora chiamare manovra, stimato dallo stesso Saccomanni in 1,6 miliardi ma che altri prevedono almeno doppio (solo per le necessità impreviste del «quadro esigenziale» serve 1 miliardo).

Per gli italiani non sarà una bella fine d’anno: stretti tra manovrine, aumenti e Tares (1 miliardo da pagare direttamente ai comuni) e con la prospettiva di tagli per altri 15-16 miliardi nel 2014.

Un solo elemento potrebbe giocare a favore dei nostri conti: un’immediata inversione del ciclo economico che riporti da subito il segno più davanti al pil. Ma sperarci è un po’ come mettersi a fare la danza della pioggia. 

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Stefano Caviglia