I problemi di De Benedetti e di Tirreno Power
ALESSANDRO PARIS / Imagoeconomica
Economia

I problemi di De Benedetti e di Tirreno Power

La centrale, stretta tra debiti e indagini della procura, rischia l’amministrazione controllata. E il suo socio Sorgenia, del gruppo De Benedetti, tratta a sua volta con le banche: in arrivo fondi stranieri?

Oltre 750 milioni di debiti. Tre top manager inquisiti per disastro colposo, tra cui il capo dell’impianto Pasquale D’Elia, su iniziativa dei pm di Savona Francantonio Granero e Maria Chiara Paolucci. Un azionista di controllo straniero, il colosso francese Gdf Suez, distante e preoccupato; un secondo socio a sua volta in crisi nera per i debiti, l’italiana Sorgenia, del gruppo Cir, che fa capo alla famiglia De Benedetti (editore del gruppo L’Espresso-Repubblica) e agli austriaci della Verbund, in uscita dalla società. È la situazione ai confini del crollo della Tirreno Power di Vado Ligure, vicino Savona, centrale a carbone che, secondo i periti della procura, tra il 2000 e il 2007 avrebbe causato, con le sue emissioni tossiche, tra i 460 e i 490 decessi per malattie respiratorie e cardiovascolari. Al fronte giudiziario si è aggiunto un fermo di produzione durato venti giorni per una bega sulle accise con l’Agenzia delle Entrate.

E, secondo le voci che circolano da qualche giorno al ministero dello Sviluppo economico, sull’azienda si profila lo spettro dell’amministrazione controllata. Il direttore generale, Enrico Erolo, si è sempre difeso: «Usiamo il carbone ampiamente entro i limiti consentiti dalle leggi». Ma per Giovanni Durante, dell’Arci Savona, che l’ha denunciato su Canale 5, a Terra!, la centrale avrebbe causato finora almeno 50 decessi all’anno e 150 milioni di euro di danni, diretti e indiretti, anch’essi ogni anno.

Nel frattempo l’azionista Sorgenia, assistita da Lazard, sta negoziando con le banche creditrici una ristrutturazione del suo monte debiti, ben 2,2 miliardi di euro complessivi, principalmente verso Mps (600 milioni), Intesa (371), Unicredit (180), Ubi (180), Bipiemme (177), Banco popolare (177) e Mediobanca (143). Le solite note, insomma. Alle prese col rischio d’insolvenza di un pezzo importante di un altro gruppo del capitalismo familiare italiano. Cinque fondi riconducibili ai colossi Jp Morgan, Citi, Goldman Sachs e Deutsche Bank avrebbero offerto loro di rilevare i crediti, ma per appena il 20 per cento del loro valore nominale. Troppo poco, non bastano neanche a salvare la faccia.

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Stella Franceschi