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Economia

L'Italia vecchia e disoccupata (al Sud)

Il Rapporto Istat 2018 racconta un Paese con 168,7 anziani ogni 100 giovani e con più occupati e ore lavorate. Ma non al Meridione

Sono le reti di relazioni la chiave del benessere e del malessere sociale ed economico. Questa convinzione permea il Rapporto Istat 2018, che fotografa come ogni anno l’Italia dell’anno precedente, cercando di capire in che direzione si muove il nostro Paese. La prima osservazione che balza agli occhi è che il nostro Paese è sempre più vecchio e solo: la popolazione totale diminuisce per il terzo anno consecutivo di quasi 100 mila persone rispetto al precedente. Siamo il secondo paese più vecchio del mondo: 168,7 anziani ogni 100 giovani.

La seconda osservazione invece riguarda il peso che i sistemi di relazioni esercitano su ciascuno di noi è una delle novità di quest’anno. Proprio l’appartenenza a reti diverse e più estese di quelle tradizionali è individuato infatti come il fattore principale di potenziale miglioramento delle nostre vite. Dal punto di vista del reddito, dell’affermazione sociale e perfino della salute.

Non si parla più solo della famiglia, dunque, da sempre il pilastro della società italiana. Ora diventano decisivi anche canali più evoluti e personali (che sembrano oltretutto garantire risultati maggiori) legati fondamentalmente a due fattori: il livello di istruzione e il lavoro.

Lavoro

Sul fronte del lavoro le notizie del Rapporto Istat sono moderatamente positive. Nell’arco del 2017 ci sono stati circa 284 mila occupati in più rispetto all’anno precedente, in cui erano già cresciuti di 324 mila unità. Buono anche il progresso delle ore lavorate (indicatore fondamentale, considerando le polemiche sul lavoro precario e a tempo parziale) che hanno raggiunto quota 10,8 miliardi (ancora un 10 per cento al di sotto del livello massimo di prima della crisi, toccato nel 2007). Numeri che hanno contribuito a determinare nel 2017 una crescita del pil dell’1,5 per cento (dopo lo 0,9 del 2016) pur sempre inferiore alla media europea (2,4% nel 2017 e 1,8 nel 2016) e comunque vista in fase di rallentamento per l’anno in corso.

Non dà invece soddisfazioni il livello delle retribuzioni, ormai da parecchi anni un punto debole dell’Italia rispetto ai paesi europei più sviluppati. Nel 2017 sono cresciute solo dello 0,6 per cento, aumentando in modo quasi impercettibile rispetto al livello assai basso dell’anno precedente.

Ma la vera cattiva notizia riguarda la situazione del Mezzogiorno. Nel 2015-2016 le regioni meridionali hanno avuto un livello di crescita economica leggermente superiore a quello del resto d’Italia, ma evidentemente non è abbastanza per dare la spinta che serve e che tutti aspettano alle opportunità di lavoro. Mentre nel 2017 il resto d’Italia ha recuperato i livelli occupazionali precedenti alla crisi, il sud rimane ancora sotto di oltre 300 mila unità. Più in generale, la società meridionale non accenna a recuperare il divario con il resto del paese, come dimostrano anche le crescenti correnti migratorie verso nord.

Diseguaglianze

Anche da questo punto di vista il quinquennio di crisi dal 2007 al 2012 ha lasciato strascichi pesanti, con un aumento delle diseguaglianze fra i redditi e una distribuzione più irregolare delle imprese per risultati economici, specie nel cruciale settore dei servizi: quelle più dinamiche tendono ad accaparrarsi quote di mercato sempre maggiori, mentre le altre arrancano in fondo alla scala. Una differenza che si riflette anche sulla qualità del lavoro e riporta al discorso di fondo: laddove il reclutamento avviene secondo criteri (e reti di relazioni) più evoluti le performances sono migliori, mentre chi si affida al vecchio canale delle relazioni familiari ottiene in genere risultati più scarsi.

L’influenza delle reti, infine, prende anche la forma delle infrastrutture fisiche fondamentali, come le connessioni internet a banca ultra larga, più presenti in alcuni territori che in altri. Corridoi economicamente rilevanti si stanno consolidando fra la Lombardia e l’Emilia Romagna da un lato e fra la Lombardia e il Veneto dall’altro, in cui efficienza e produttività sono tendenzialmente superiori alla media nazionale.

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Stefano Caviglia