Le centrali nucleari italiane. Storia e foto
La centrale elettronucleare del Garigliano a Sessa Aurunca (Caserta), costruita tra il 1959 e il 1963. (Smith Collection, Gado, Getty Images)
Economia

Le centrali nucleari italiane. Storia e foto

Cinquant'anni fa iniziò la costruzione della centrale di Caorso, che si aggiunse alle tre centrali operative dagli anni sessanta. La storia dalle origini al referendum del 1987 fino al decommissioning attualmente in corso

Esattamente cinquant'anni fa iniziava la costruzione dell'ultima centrale nucleare italiana entrata in funzione, quella di Caorso (Piacenza).

Meno di un ventennio più tardi un referendum seguito all'incidente della centrale ucraina di Chernobyl mise la parola fine all'energia atomica in Italia. Recentemente le nuove tecnologie in campo nucleare hanno riaperto il dibattito sull'opportunità di reintrodurre il nucleare anche in chiave di difesa ambientale. Ripercorriamo la storia delle centrali nucleari italiane dalle origini alla chiusura definitiva nella seconda metà degli anni ottanta.

La nascita dell'energia elettronucleare in Italia (1955-1962)

La corsa al nucleare in Italia fu inizialmente rapida ed efficace. I fattori che portarono al successo tra la fine degli anni cinquanta e la prima metà del decennio successivo sono diversi e peculiari per la particolare situazione politico-economica italiana.

Gli estremi temporali del "boom" dell'atomo in Italia si collocano a cavallo tra il cosiddetto miracolo economico per estendersi fino agli anni successivi alla crisi del petrolio della prima metà degli anni settanta. Nel mezzo della corsa, la nazionalizzazione dell'energia elettrica del 1962 segnò un punto di cesura fondamentale.

A dare il via al nucleare in Europa era stata la crisi di Suez del 1956. I suoi effetti sul prezzo del greggio fecero in modo che gli Stati cercassero fonti alternative che potessero sopperire almeno parzialmente ai combustibili fossili. In Italia questa esigenza era ancora più sentita ed urgente, in quanto la richiesta da parte dell'industria nazionale in fase di forte espansione era in costante crescita.

In mancanza di un ente nazionale l'iniziativa fu raccolta da un misto di gestori privati ed enti a partecipazione statale. Per quanto riguarda la gestione della ricerca nucleare in Italia, questa fu affidata ad una costola del Cnr, il Cnrn (Comitato Nazionale per le Ricerche Nucleari) poi divenuto Cnel ed infine Enea. Il comitato, presieduto dal geologo napoletano Felice Ippolito, fece nascere in tempo record i due principali centri di ricerca e sperimentazione di Frascati (Roma) e Ispra (Varese).

Proprio attorno alla figura del professor Felice Ippolito si consumò la lotta politica tra i principali protagonisti del nucleare italiano. Il presidente del Cnrn fu infatti fatto segno di un fuoco incrociato da parte di diversi oppositori per motivi sia politici che economici. Favorevole alla nazionalizzazione e alla gestione del nucleare da parte di un unico ente a controllo statale (quale sarà l'Enel dopo la nazionalizzazione, cavallo di battaglia del primo centro-sinistra di governo) fu naturalmente avversato dai gestori privati, in particolare dalla Edison presieduta da Valerio De Biasi e da altri gruppi finanziari che giudicavano negativa la mano dello Stato sul nucleare. Dall'altra parte Ippolito fu messo sotto pressione da una buona parte della Democrazia Cristiana e dalla stampa di centro-destra (naturalmente contraria all'apertura a sinistra del primo governo Fanfani). Infine ebbe come principale accusatore Giuseppe Saragat, che fu il primo a rendere pubblici i sospetti di corruzione legati agli appalti per la costruzione del centro sperimentale di Ispra. il futuro presidente della Repubblica puntò l'indice sugli aspetti antieconomici dell'energia nucleare, non senza il supporto di dati realistici. I costi legati sia alla costruzione dei gusci dei reattori che al reperimento e alla trasformazione dell'uranio pesavano in modo determinante sul prezzo finale all'utenza, che risultava pressoché doppio rispetto all'idroelettrico o al combustibile fossile. Non senza sospetti sugli effetti di una presunta pressione dei petrolieri sui giudici, Ippolito fu processato nel 1964 in seguito alle dimissioni imposte dal Ministero dell'Industria allora presieduto dal democristiano Giuseppe Togni. La condanna fu pesante: undici anni di reclusione in seguito ridotti a cinque. Felice Ippolito rimase in carcere fino alla grazia concessa dallo stesso Saragat (diventato nel frattempo Capo di Stato) nel 1968.

La prima centrale nucleare: l'impianto di Latina (Borgo Sabotino) dell'Eni di Enrico Mattei

L'avventuriero e pioniere dell'indipendenza energetica nazionale, il presidente dell'Eni Enrico Mattei, fu il primo a muoversi per la rapida realizzazione di un impianto elettronucleare in Italia. L'ingegnere ed ex-partigiano marchigiano fece partire il progetto quando i privati e lo Stato discutevano ancora animatamente sulla gestione della nuova fonte energetica. La gestione fu affidata ad una società costola dell'Eni, l'Agip Nucleare. Le trattative per l'acquisto del reattore si svolsero tra l'azienda italiana e la britannica Nuclear Power Plant Ltd. in quanto Mattei trovò decise resistenze da parte statunitense a causa della politica internazionale dell'Eni che aveva creato forti attriti con le sette sorelle del petrolio. L'accordo, siglato il 2 maggio 1958, prevedeva una collaborazione di sette anni tra le due società (pari ad un ciclo vitale del reattore fino alla prima revisione). Il luogo prescelto era una zona di Latina nei pressi del litorale, in località Borgo Sabotino. I lavori ebbero inizio poco dopo, il 20 novembre 1958. L'investimento di circa 35 miliardi fu finanziato in parte dalla Nuclear Power Plant e dall'Agip Nucleare. La fornitura dell'uranio era stato appaltata agli inglesi ma, come Enrico Mattei aveva fatto nel campo petrolifero, sviluppò parallelamente alla costruzione della centrale un progetto di ricerca in campo minerario che avrebbe dovuto a lungo termine rendere gli impianti indipendenti dalle forniture estere. Una società partecipata da Agip Nucleare, la Somiren (SOcietà MInerali Radioattivi Energia Nucleare) iniziò una serie di esplorazioni in Piemonte (Val Maira) e Trentino (Val Rendena). In entrambi i casi si verificò da parte della popolazione locale una delle prime sindromi nimby in Italia. La forte opposizione all'estrazione di uranio, la paralisi dovuta allo scontro tra i comitati e le regioni favorevoli alle concessioni ed infine il coinvolgimento di Somiren nel caso Ippolito fecero naufragare il progetto di Mattei.

Il reattore fu costruito a Massa dalla Nuovo Pignone, azienda del gruppo Eni. Si trattava di un reattore di prima generazione del tipo Magnox (o Camden Hall dal nome della centrale britannica costruita nel 1956) alimentato da uranio naturale senza arricchimento, moderato a grafite e con anidride carbonica come termovettore. La potenza sviluppata era limitata rispetto ai reattori di generazione successiva, nel caso di Latina di 200 Mw, che lo poneva comunque al vertice degli impianti europei dell'epoca. Dopo centocinquantamila ore di lavoro il reattore fu terminato e consegnato grazie ad una tecnica di trasporto spettacolare. La struttura fu spostata da Massa a Marina di Massa su uno speciale affusto a 96 ruote. L'ultima parte del trasporto fu invece effettuata via mare, con il reattore immerso per metà nell'acqua e trainato da un rimorchiatore fino al porto di Anzio. Inserito nel guscio in cemento armato nel 1960, diventerà "critico" (cioè in funzione ma non scora operativo nella produzione di energia elettrica) circa due anni più tardi. La centrale iniziò a produrre il 1 giugno 1963 allacciata alla rete di distribuzione di Roma Sud. Enrico Mattei, scomparso nell'incidente aereo di Bascapé del 27 ottobre 1962, non vedrà mai la prima centrale italiana in funzione. Neanche sei mesi più tardi la gestione dell'impianto nucleare passò all'Enel, da poco nato in seguito alla nazionalizzazione delle ex società elettriche private. I problemi legati alla liquidazione dell'ex Simea, la società privata di gestione dell'impianto di Latina, si presentarono già all'indomani della cessione all'Enel avvenuta il 15 ottobre 1963. L'ex gestore infatti lasciò alla società elettrica nazionale il peso di forti esposizioni verso i fornitori accumulate e mai liquidate durante i lavori di costruzione.

La vita della centrale voluta da Mattei durerà dalla tarda primavera del 1963 fino all'arresto definitivo avvenuto il 24 dicembre 1987. Durante l'attività la centrale di Latina-Borgo Sabotino fu sottoposta a frequenti e costosi interventi di manutenzione data la delicata struttura del reattore di prima generazione. I ventiquattro anni di vita operativa della centrale laziale furono tormentati da problemi provenienti sia da cause interne che dall'esterno, questi ultimi in particolare di natura politica. Per quanto riguarda i primi, quelli di natura tecnica, si verificarono nel 1970 e nel 1985. Nel primo caso si trattò di un incidente che non fu mai riportato dai mass media e rimase all'interno delle mura in cemento della centrale. Soltanto dopo la sua chiusura sedici anni più tardi, fu rivelata da alcuni addetti che all'epoca erano intervenuti per un improvviso innalzamento della temperatura nel reattore (un incidente simile a quello di Fukushima). Il calore elevato provocò la fusione di parte della sfera e soltanto per l'intervento tempestivo dei tecnici fu evitato il peggio. Tre degli addetti morirono pochi anni più tardi di tumore alla tiroide, un male tipico delle contaminazione da materiali radioattivi. Un secondo incidente, questo invece ampiamente riportato dalla stampa e dalle televisioni accadde quindici anni più tardi, il 27 marzo 1985. Durante la pulizia periodica delle quasi tremila tubazioni per il raffreddamento del nucleo, si verificò la fuoriuscita di una nube di solvente irritante e tossica. Il bilancio fu di 46 addetti ricoverati per una grave intossicazione, ma fu soprattutto la dispersione di una nube contaminata dal solvente a scatenare le polemiche e le manifestazioni pubbliche per la chiusura della ormai vecchia centrale. Le proteste nella seconda metà degli anni settanta riguardavano anche la scelta dell'area sulla quale l'impianto di Latina era sorto. A poca distanza infatti era in funzione il grande poligono militare di Nettuno impiegato per il tiro di artiglieria a lunga gittata, il cui perimetro si estendeva fino a poche centinaia di metri dall'impianto elettronucleare. A meno di un anno dall'ultimo incidente, in Ucraina una centrale dello stesso tipo di quella di Borgo Sabotino generò il più grave disastro nucleare della storia: l'incidente di Chernobyl, che segnò definitivamente il destino della prima centrale nucleare italiana.

La centrale del Garigliano (Sessa Aurunca, Caserta)

La costruzione della seconda centrale elettronucleare italiana fu quasi contemporanea a quella di Latina. In questo caso fu realizzata da un consorzio tra grandi aziende a partecipazione statale: IRI - Finelettrica e Finsider (gruppo Finmeccanica) riunite in una nuova realtà aziendale, la S.E.N.N. (Società Elettro-Nucleare Nazionale) con sede a Napoli. Il progetto riguardava la costruzione di una centrale elettronucleare che avrebbe dovuto alimentare le aziende del meridione nate dai piani industriali dei governi di centro-sinistra a cavallo tra gli anni cinquanta e sessanta. La zona del fiume Garigliano, nei pressi dell'abitato di Sessa Aurunca in provincia di Caserta, fu scelta per la disponibilità idrica offerta dal corso d'acqua campano. Tuttavia la fragilità del terreno circostante impose ai progettisti un impegnativo intervento aggiuntivo. Furono piantati 751 pali in cemento armato lunghi quindici metri, assicurati a fondamenta costruite con una colata da oltre diecimila metri cubi di cemento armato. La consulenza tecnica fu affidata al Crnr di Felice Ippolito, mentre il progetto della struttura al professor Riccardo Morandi (l'ingegnere del Viadotto Polcevera di Genova, crollato il 14 agosto 2018) che realizzò la caratteristica cupola sferica del diametro di 49 metri contenente il reattore. La gara per le forniture e la costruzione fu bandita nel 1957. Tra i partecipanti che fecero offerte sulla costruzione del reattore passò l'americana General Electric, che progettò un impianto differente da quello contemporaneo in costruzione a Latina. Si trattava di un reattore del tipo BWR (Boiling Water Reactor - reattore ad acqua bollente) che non necessitava, come nel caso di Latina, di un generatore di vapore a gas come termovettore. La potenza di 150 Mw era leggermente inferiore rispetto a quella della centrale dell'Eni, ma più efficiente grazie alle nuove soluzioni tecniche adottate. La produzione di energia elettrica prevista in esercizio era di oltre un miliardo di chilowattora all'anno. La capacità del reattore, ad uranio leggermente arricchito, era di cinquanta tonnellate di combustibile per un ciclo di quattro anni.

I lavori per la realizzazione della centrale del Garigliano durarono dal 1959 al 1963. L'entrata in funzione dell'impianto nucleare fu ritardata da un serio inconveniente verificatosi nella fase di collaudo alla fine di agosto, nel pieno della bufera giudiziaria su Felice Ippolito. Il danno accidentale fortunatamente non coinvolse il reattore ma l'alternatore di costruzione Ansaldo, la cui riparazione fece slittare l'inaugurazione della centrale all'aprile del 1964. L'anno successivo l'impianto passò sotto la gestione dell'Enel.

La centrale funzionò fino al 1978, anno in cui fu momentaneamente fermata per manutenzione. Fu durante i lavori che si svilupparono forti polemiche sulla sicurezza ambientale dell'impianto, soprattutto in seguito a frequenti casi di malformazioni nei prodotti agricoli (la zona era storicamente dedicata alla produzione di ortaggi e all'allevamento di bufali). Si temeva che la struttura protettiva in cemento armato non avesse tenuto a dovere e che il terreno nei pressi dell'alveo del fiume Garigliano fosse stato infiltrato da liquidi radioattivi. Il caso montò nei mesi successivi, celato dalla censura sia dell'azienda che della stampa. Secondo i gruppi ecologisti, poco prima della fermata per manutenzione sarebbe scoppiato uno dei filtri del reattore che avrebbe liberato una nube contaminata nella zona circostante. A supportare le tesi degli ecologisti furono anche una serie di nascite di animali da allevamento (bovini, ovini e animali da cortile) caratterizzate da gravissime malformazioni come vitelli nati con due teste oppure con cinque o sei zampe. Dopo uno straripamento del Garigliano le cui acque arrivarono sino alle strutture della centrale, iniziò il caso giudiziario che impose una verifica trasparente delle strutture della centrale, mentre continuavano senza interruzione le manifestazioni dei cittadini e degli enti locali che chiedevano la chiusura definitiva dell'impianto ancora fermo per manutenzione. Questi ultimi avranno la meglio in quanto la centrale, considerati anche gli altissimi costi di ripristino, sarà fermata definitivamente ben prima dell'incidente di Chernobyl. Il reattore fu spento il 1 marzo 1982 dopo circa 20 anni di attività.

La centrale di Trino Vercellese (Vercelli)

L'impianto portava il nome del padre della fisica nucleare Enrico Fermi ed era nato da finanziamenti in buona parte stanziati dal settore privato. Gli attori, in questo caso, erano la società elettrica settentrionale Edison Volta e la americana Import-Export Bank, oltre alle partecipate pubbliche Finelettrica, Imi, Sip, Terni e la veneta Sade. Questi si riunirono già nel 1955 dando vita ad una società per lo sviluppo dell'energia elettronucleare, la S.E.L.N.I. (Società Elettro Nucleare Italiana), che l'anno successivo si accordò con l'americana Westinghouse per la fornitura di un reattore ancora più avanzato rispetto a quelli di Sessa Aurunca e Latina. Si trattava di un impianto da ben 270 Mw, ad uranio moderatamente arricchito del tipo ad acqua pressurizzata (PWR o Pressurized light Water-cooled Reactor). L'inizio dei lavori di costruzione della terza centrale nucleare italiana subì un notevole ritardo a causa della difficoltà nel reperimento della zona nella quale avrebbe dovuto essere realizzata. Inizialmente i tecnici avevano scelto un'area della Vallegrande, sulle alture del levante ligure tra Riva Trigoso e Moneglia, ma per la ribellione degli abitanti della zona furono costretti a desistere. La scelta cadde successivamente su Trino, piccolo centro della piana vercellese, sia per la adesione delle autorità locali al progetto sia per l'ampia disponibilità d'acqua resa possibile dalla vicinanza del corso del fiume Po.

Il grande reattore di Trino, costruito negli Stati Uniti, era stato trasportato via nave fino a Porto Marghera. Si trattava di un gigantesco involucro d'acciaio del peso di 250 tonnellate arrivato nel 1962 nel porto veneto da dove era partito per uno spettacolare viaggio lungo il Po. Il trasporto durò 225 giorni fino all'arrivo nei pressi di Valenza Po. Da qui fu trasportato su un affusto a 125 ruote che arrivò a Trino il 15 giugno 1963. Soltanto una settimana più tardi, alla presenza del ministro dell'Industria Giuseppe Medici, il reattore entrò in fase critica. Il costo della centrale ultimata aveva raggiunto i 45 miliardi di lire, per circa metà proveniente dagli investitori americani. L'impianto fu collegato alla rete elettrica ed entrò in esercizio commerciale il 1 gennaio 1965, per passare un mese più tardi alla gestione Enel.

La centrale piemontese fu la prima in Italia ad essere alimentata da combustibile di produzione nazionale. A fornire l'uranio arricchito fu una nuova società, la Coren (Combustibili per Reattori Nucleari) costituita nel 1968 da una joint venture tra Fiat e Westinghouse con sede a Saluggia (Vercelli).

La centrale di Trino rimase in funzione per tutti gli anni '70 e '80, completando tre cicli di combustibile e relative fermate periodiche per revisione, aggiornamenti e ripristino. La spinta al programma nucleare tra gli anni '70 e il decennio successivo previde addirittura un raddoppio dell'impianto (la cosiddetta centrale Trino 2) che avrebbe dovuto sorgere in frazione Leri Cavour, a pochi chilometri da Trino. La commessa fu assegnata da Enel ad Ansaldo ma l'incidente di Chernobyl bloccò il progetto a lavori iniziati. L'impianto fu così convertito in termoelettrico e portò alla nascita della centrale Galileo Ferraris in esercizio fino al 2009 e chiusa definitivamente nel 2013.

La centrale Enrico Fermi seguì il medesimo destino degli altri impianti nucleari italiani dopo il referendum del 1987. Al decimo ciclo di combustibile appena caricato, la centrale piemontese fu l'ultimo impianto elettronucleare a chiudere definitivamente a metà del 1990, dopo essere stato arrestato nel marzo del 1987.

Tra il 1967 e il 1970 la centrale di Trino fu fermata, ufficialmente per manutenzione. In realtà, secondo un'inchiesta del settimanale "Epoca" pubblicata nel 1977, all'interno della cupola si sarebbe verificato un incidente di rilevante gravità. Uno schermo termico in acciaio del peso di diverse tonnellate era piombato nella vasca del reattore, un luogo altamente contaminato dalla radioattività. L'Enel, che lo presentò come un semplice guasto e liquidò la tesi dell'incidente, negando ogni sospetto sulla fuoriuscita di materiali radioattivi dalla zona protetta.

La centrale di Caorso (Piacenza)

L'impianto elettronucleare emiliano fu il primo ad essere commissionato direttamente dall'Enel alla fine degli anni sessanta. I primi lavori in località Zerbino a poca distanza dal centro di Caorso sulle rive del fiume Po, iniziarono a partire dal gennaio 1970. Le commesse per la realizzazione del più avanzato impianto nucleare furono assegnate dall'ente nazionale elettrico all'Ansaldo Nucleare di Genova, alla Asgen (colosso dell'elettromeccanica sempre del gruppo Ansaldo) e alla Breda Termomeccanica di Sesto san Giovanni (Milano). La commessa per il reattore andò come nel caso della centrale del Garigliano alla americana General Electric che iniziò la produzione negli stabilimenti di San José in California. Si trattava di un impianto tecnologicamente simile a quello di Trino, vale a dire ad uranio arricchito del tipo BWR (Boiling Water Reactor). La potenza complessiva era di gran lunga maggiore di quella delle altre centrali italiane del decennio precedente, con ben 860 Mw. Il vessel del reattore, ossia il guscio in acciaio, aveva un diametro di 5,5 metri ed era lungo 22 metri per un peso complessivo di oltre 600 tonnellate. La costruzione della centrale, i cui termini furono inizialmente fissati per il 1975, subì pesanti ritardi a causa di diversi fattori. Tra questi, oltre alle proteste degli abitanti della zona che temevano gli effetti di una presunta contaminazione nucleare all'alba del movimento ecologista, un incidente ad una centrale simile a quella di Caorso contribuì a rallentare ulteriormente il progresso dei lavori. Il 28 marzo 1979 nella centrale di Three Miles Island in Pennsylvania si verificò la parziale fusione di un reattore praticamente identico a quello di Caorso, con conseguente fuoriuscita di liquido altamente radioattivo. L'incidente, il più grave sino ad allora nel campo del nucleare commerciale, segnò una cesura nell'ulteriore sviluppo di centrali dotate di impianti di quel tipo, oltre a generare un'ondata di protesta anti-nucleare destinata a durare nel tempo. Anche per la centrale in costruzione sulle rive del Po l'incidente americano fu determinante. Il reattore General Electric e i sistemi di controllo furono sottoposti a lunghi controlli e verifiche tecniche supplementari, che inclusero un trasferimento a Tree Miles del personale italiano per studiare le dinamiche dell'incidente del 1979. Durante il lungo periodo di verifica, gli effetti della crisi petrolifera che colpì in modo sensibile anche l'Italia generarono una nuova spinta alla ricerca dell'indipendenza energetica che comprendeva anche lo sviluppo di nuove centrali elettronucleari. Il Piano Energetico Nazionale del dicembre 1975 stabiliva le località indicate per la costruzione di nuovi impianti: al Sud nei pressi di Termoli e in Puglia a San Pietro Vernotico (Brindisi), nel settentrione a Viadana (Mantova) e nel pavese tra Sartirana di Lomellina e Monticelli. Per quanto riguardava l'Italia centrale fu deliberata la costruzione di una centrale da ben 2000 Mw a Montalto di Castro (Viterbo) che fu iniziata nel 1982 ma mai terminata e riconvertita dopo il 1990 in centrale termoelettrica.

La centrale di Caorso, dopo un periodo di prove caratterizzate da alcune fermate forzate dell'impianto, entrò in esercizio alla metà del 1982. Il prolungamento di anni delle attività di verifica e collaudo fecero lievitare il costo a 468 miliardi di lire, dato che si aggiunse alle già altissime polemiche sulla sicurezza del nucleare italiano. La vita operativa della centrale padana fu effimera. Dopo neppure cinque anni di attività l'incidente di Chernobyl segnò anche il destino di Caorso, il cui nucleo fu spento per manutenzione nell'ottobre 1986 e fermato definitivamente alcuni mesi più tardi nel febbraio 1987, quando quattordicimila fusti contenenti materiale radioattivo attendevano lo smaltimento.

Gli anni dello smantellamento (la gestione Sogin)

Il referendum del 1987 segnò la fine dell'esperienza nucleare nel settore energetico italiano. Per le quattro centrali ormai spente si apriva la questione dello smantellamento e della gestione dei rifiuti radioattivi, procedimento particolarmente complicato e costoso in quanto le centrali italiane erano state costruite con l'idea di una vita tecnica molto più lunga e senza quindi porsi il problema di uno smantellamento a breve termine e neppure di una delicata bonifica delle scorie. Dallo spegnimento dopo il 1987 alle soglie del terzo millennio gli impianti furono messi in sicurezza in una sorta di lungo "letargo" chiamato in termini tecnici "custodia protettiva passiva", nell'attesa del naturale calo dei livelli di radioattività all'interno dell'impianto nucleare in attesa di poter incominciare la fase di "decommissioning" della centrale.

Per quanto riguarda gli impianti italiani, le operazioni di smantellamento e bonifica (compreso lo smaltimento dei rifiuti radioattivi) è stata affidata a partire dal 1999 alla Sogin (Società Gestione Impianti Nucleari) totalmente partecipata dal Ministero dell'Economia e delle Finanze. In seguito alla liberalizzazione del settore elettrico la Sogin ha iniziato la fase del cosiddetto "decommissioning accelerato" in tutte le quattro centrali gestite dall'ente, ancora oggi in corso d'opera sia per quanto riguarda lo smantellamento delle opere e dei reattori che la messa in sicurezza e lo smaltimento dei rifiuti radioattivi.

La turbina Ansaldo-San Giorgio della centrale del Garigliano (foto: Stefano Secondino /Ansa)

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