Lavoro: serve un mercato unico europeo
ANSA /Franco Silvi
Economia

Lavoro: serve un mercato unico europeo

Al Vertice di Milano 18 Stati con troppe differenze nella regolamentazione dell'occupazione

Nella sola eurozona ci sono oltre 18 milioni di disoccupati, che diventano 24 milioni se si guarda all’intera Europa. I dati Eurostat non mentono e registrano un fenomeno che, nonostante sia in leggero miglioramento, deve preoccupare. L’Italia è uno dei Paesi più colpiti e la ricerca di una soluzione si è fatta spasmodica. Lo dimostra l’odierno vertice sull’occupazione voluto dal presidente del Consiglio Matteo Renzi. Un summit che, con ogni probabilità, non porterà a qualcosa di nuovo. Arriveranno altre promesse, ma non è ciò che serve. Sarebbe invece necessario uno spirito corale, per ora assente. 

La disoccupazione è un problema incredibile, occorre uno sforzo di tutti gli Stati membri per combatterla

Anni di immobilismo

È lontano il giugno 2012, quando cioè Herman Van Rompuy, presidente del Consiglio Ue, propose un piano da 200 miliardi di euro per combattere la disoccupazione. Troppo piccolo, troppo blando, troppo frammentato. A oggi nella zona euro ci sono 18 Stati, quindi 18 economie differenti, con 18 interessi nazionali diversi. Trovare la quadratura del cerchio sarebbe l’obiettivo, ma hanno sempre prevalso le singolarità. La Commissione europea ha provato, negli ultimi cinque anni, ad armonizzare le esigenze dei singoli mercati del lavoro, senza soluzione. E allora gli Stati membri hanno tentato, chi più e chi meno di guardare a come ripristinare i canali dell’occupazione. Spagna, Francia e Germania sono tre esempi che raccontano cosa sta accadendo in Europa. Madrid ha introdotto una flessibilità estrema, Parigi rimugina su come ridurre il potere dei sindacati, Berlino gongola dopo la riforma del 2003 ed è riluttante ad aiutare i partner. E l’Italia? Si trova e metà fra Spagna e Francia, con l’aggravante della debolezza della domanda interna. Se una società non ha ordini e non produce, perché dovrebbe assumere?

La disoccupazione è un dramma

Il caso spagnolo

In Spagna, nel febbraio 2012, il premier Marian Rajoy introdusse una riforma del mercato del lavoro molto simile a quella che ha presentato Matteo Renzi. Più facile e meno costoso licenziare un dipendente, riduzione del Tfr, cancellazione dei divieti di licenziamento in caso di severa crisi economica, più flessibilità per le assunzioni, forme contrattuali nuove. In pratica, è più facile assumere con contratti atipici e così più semplice licenziare. Secondo l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico (Ocse), questa riforma ha prodotto e sta ancora producendo buoni risultati, ma occorre fare di più. Infatti, secondo l’istituzione parigina, il problema spagnolo è che ci sono troppi lavoratori disoccupati con bassa istruzione e una marcata riluttanza alla formazione continua. Ed ecco perché il tasso di disoccupazione non è calato come quanto sperato da Rajoy. Complice anche la contrazione del mercato immobiliare, e quindi quello delle costruzioni. “I miglioramenti più significativi ci saranno nei prossimi cinque anni”, dice l’Ocse. Ma intanto Madrid si domanda se la riforma del mercato del lavoro di Rajoy è solo un’illusione o no. 


Il caso francese

Diversa la situazione in Francia. Nei mesi scorsi il Financial Times definì “sclerotica” l’economia francese, invocando a gran voce una riforma del mercato del lavoro che renda meno ingessato il Paese. Stesse raccomandazioni arrivate dalla Commissione europea a più riprese. E analoghe a tutte quelle giunte negli ultimi 20 anni dalle istituzioni finanziarie private. Eppure, Parigi non ha ancora adottato un programma per combattere la disoccupazione, il cui tasso resta in doppia cifra, a quota 10,5 per cento. Il ministro dell’Economia Emanuel Macron, da poco insediatosi nel ministero di Bercy, ha già aperto un tavolo di trattativa con i sindacati per innovare il mercato del lavoro. “Costa troppo, è inefficiente e bisogna ripensarlo completamente”, ha detto Macron, facendo seguito alle proposte del primo ministro Manuel Valls. Fra queste, la semplificazione del codice del lavoro francese, circa 3.000 pagine, e un limite di 24 ore settimanali per i contratti part-time. Non solo. L’Eliseo vorrebbe rivoluzione il sistema di contrattazione sindacale. Per esempio, a oggi le società con più di 10 dipendenti devono istituire un sindacato interno, con dei rappresentati compensati con un’indennità oltre al normale salario. Nel caso la società abbia più di 50 dipendenti, gli obblighi sono moltiplicati. “Un sistema insostenibile”, ha commentato l’Ocse. Ma di novità, per ora, nemmeno l’ombra.

Il mercato del lavoro francese è insostenibile. Servono riforme al più presto

Il caso tedesco

E poi c’è la Germania. Forte della sua riforma del mercato del lavoro completata nel 2003, grazie all’allora cancelliere Gerhard Schröder, Berlino può dormire sonni tranquilli. Il tasso di disoccupazione è al 4,9% e continua a calare. Certo, il merito è anche dei mini-job, ma la flessibilità interna è elevata. Secondo i calcoli dell’International labour organization (Ilo) dell’ONU, un lavoratore 40enne di media istruzione che perde il lavoro in Germania impiega un solo mese per trovare un altro impiego. Si tratta della minore attesa possibile nell’area euro. Merito, spiega l’Ilo, di un sistema flessibile in entrata e in uscita, e capace di accogliere lavoratori senza problemi. Forse è per questo che la migrazione di lavoratori verso la Germania è così elevata. In ogni caso, il cancelliere attuale, Angela Merkel, non ha introdotto misure straordinarie per migliorare l’occupazione nel Paese. “Non ne aveva bisogno, ma avrebbe potuto fare una cosa molto interessante e di sicuro impatto sociale sugli altri Paesi, ovvero facilitare l’assunzione di lavoratori stranieri”, ha scritto Citi in una ricerca sul mercato occupazionale dell’eurozona. Le facilitazioni per i lavoratori stranieri, tuttavia, non sono nemmeno mai state contemplate da Berlino. La solidarietà, da qualunque lato la si guardi, non fa parte dell’eurozona. 

Il sistema tedesco funziona perché è flessibile sia in entrata sia un uscita

Il futuro incerto dell’eurozona

Tralasciando i casi estremi di Grecia e Portogallo, in cui le misure introdotte, sebbene quantitativamente elevate, si sono scontrate con un’economia semi-distrutta, non c’è alcun Paese che è stato in grado di introdurre un piano di lotta alla disoccupazione. Molte idee, diverse conferenze stampa, tanti soldi promessi, pochi risultati. E la principale differenza con gli Stati Uniti d’America diventa sempre più evidente. Se negli USA i lavoratori hanno una mobilità maggiore, aiutata anche da una disciplina normativa più favorevole, in Europa non è così. Se un lavoratore italiano perde lavoro in Italia, difficilmente andrà in Germania, o in Irlanda, per trovare il perfetto incrocio fra domanda e offerta. Troppe regole, troppi costi. Gli svantaggi superano i benefici. Ma se l’obiettivo finale vogliono essere gli Stati Uniti d’Europa, forse bisognerebbe iniziare a pensare a un reale mercato del lavoro unico europeo. 

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Fabrizio Goria

Nato a Torino nel 1984, Fabrizio Goria è direttore editoriale del sito di East, la rivista di geopolitica. Scrive anche su Il Corriere della Sera e Panorama. In passato, è stato a Il Riformista e Linkiesta e ha scritto anche per Die Zeit, El Mundo, Il Sole 24 Ore e Rivista Studio. È stato nominato, unico italiano, nella Twitterati List dei migliori account Twitter 2012 da Foreign Policy.

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