Fisco e contenziosi: ecco chi decide sulle nostre sanzioni
Sono le commissioni tributarie, organi giurisdizionali che possono emettere sentenze che valgono miliardi di euro
Sono balzate agli onori della cronaca giudiziaria in queste ore per uno scandalo di corruzione di livello nazionale, ed per questo che si comincia in un qualche modo a discuterne più diffusamente: stiamo parlando delle commissioni tributarie, nella loro versione provinciale o regionale, organi giurisdizionali dei quali i più non solo non conoscono le funzioni, ma ne ignorano del tutto l’esistenza. Eppure stiamo parlando di piccole giurie, composte a seconda i casi da tre o più soggetti, che decidono su tutti i ricorsi fiscali che vengono intrapresi nel nostro Paese. Funzionano come veri e propri tribunali di primo, le commissioni provinciali, e di secondo grado, quelli regionali, e nel solo 2015 hanno risolto contenziosi per un valore economico di 50 miliardi di euro. Avete letto bene, 50 miliardi di euro, una cifra talmente enorme, da far nascere subito il dubbio del perché su organi così rilevanti, verrebbe da dire per l’economia stessa del nostro Paese, non ci siano riflettori accesi notte e giorno.
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Competenza: un optional
Eppure, questa sorta di funzionamento occulto, non è l’unico grande paradosso di queste commissioni. L’altro, che rappresenterà un po’ il fil rouge di tutto il discorso che andremo a fare, è quello della competenza tecnica, che lascia in effetti molto a desiderare. Ma andiamo con ordine. Innanzitutto è bene ricordare che, in base all’ultima riforma che porta la data del 1992, i componenti delle commissioni tributarie sono nominati dal Consiglio di presidenza della giustizia tributaria, una sorta di organo di autogoverno del mondo fiscale, sulla falsa riga del Consiglio superiore della magistratura. Non vengono però indetti dei concorsi veri e propri, visto che nel caso delle commissioni tributarie abbiamo a che fare con giudici non togati. Si fanno semplicemente dei bandi, ai quali si può partecipare per titoli. Ne hanno facoltà innanzitutto i magistrati in servizio o, come capita più spesso, a riposo, e solo tra essi possono essere individuati i presidenti delle varie commissioni territoriali. Ci sono poi ex ufficiali della Guardia di Finanza, ex dipendenti dell’Agenzia delle entrate, notai, avvocati, commercialisti, tributaristi, ragionieri. Inoltre, è ammessa la presenza di geometri, architetti e ingegneri. Per finire, nelle commissioni provinciali è possibile essere nominati anche se solo in possesso di un laurea in giurisprudenza o economia e commercio da almeno due anni.
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Basta scorrere questo lungo elenco di soggetti potenzialmente nominabili in una commissione tributaria, per rendersi conto che molti di loro in effetti hanno ben poco da spartire con una materia così tecnica e così complicata come quella fiscale. A cominciare proprio dai magistrati, ossia i presidenti delle commissioni in questione. La maggior parte di loro infatti approda a questi ruoli dopo aver passato un’intera carriera nell’ambito penale, occupandosi magari di omicidi. Risultano dunque il più delle volte, per stessa ammissione di chi deve confrontarsi con loro nei dibattimenti all’interno delle commissioni, totalmente all’oscuro dei fondamenti stessi della materia tributaria. Per non parlare di geometri, architetti e ingegneri, la cui presenza in origine era stata ritenuta utile per dirimere questioni di carattere catastale, ma che oggi invece si ritrovano a decidere su contenziosi di tutt’altra natura. Ed è a questo punto che sorge spontaneamente una prima domanda: come è possibile che una materia così delicata come quella fiscale, che notoriamente per noi cittadini mortali impone l’ausilio di un Caf o di un commercialista, quando si tratta invece di decisioni di carattere giudiziale, che possono incidere per decine di miliardi di euro, venga lasciata in mano a persone spesso del tutto incompetenti? È come se uno di noi decidesse di fare un investimento finanziario e affidasse i propri soldi a un farmacista: risulterebbe alquanto azzardato.
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Eppure nel nostro Paese, nel campo della giustizia tributaria, è questo lo scenario con cui bisogna fare i conti. Un piccolo esercito di circa 3.400 persone, tanti sono i componente delle varie commissioni provinciali e regionali, decide dall’alto, o meglio verrebbe da dire, dal basso, di una competenza quanto mai precaria, su contenziosi che come detto valgono miliardi di euro. A ricorrere più spesso alle commissioni tributarie infatti non sono i privati cittadini, ma le aziende, grandi e piccole, che devono fare i conti con accertamenti della Guardia di Finanza, o con indagini dell’Agenzia delle entrate, tutte procedure che a volte possono portare ad esborsi per sanzioni o altro, del valore di milioni di euro. È contro queste sentenze che si ricorre alle commissioni tributarie cercando giustizia.
E bisogna poi considerare che i componenti delle commissioni più sopra elencati, vengono pagati poco, con una retribuzione calcolata sulla base delle sentenze emesse. Una stima molto aleatoria, quantifica in circa 1.500-1.700 euro al mese l’introito massimo di un presidente di commissione. Ovvio dunque che per un magistrato, il ruolo in questione può essere accettato solo come fonte di una sorta di entrata straordinaria, da affiancare ad un altro stipendio, o come accade più spesso, ad una pensione. Se dunque questi sono i numeri in campo, come meravigliarsi se un’azienda, costretta a pagare milioni di euro, decida inopinatamente di avvicinare un presidente di commissione, proponendogli sottobanco qualche migliaio di euro per aggiustare una sentenza e annullare la sanzione fiscale. Ed è proprio quello che è accaduto, e che la magistratura inquirente, in queste ore, sta facendo emergere un po’ in tutta Italia. Tra l’altro senza grandi sorprese da parte dei tanti operatori di settore che ammettono amaramente di aver saputo da tempo di questi comportamenti deviati.
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Le soluzioni
Alla luce di questo panorama decisamente sconsolante, le possibili soluzioni a questa situazione risultano evidenti: bisognerebbe innanzitutto formare meglio i giudici tributari e in secondo luogo pagarli adeguatamente. Per fare tutto ciò bisognerebbe creare dunque una vera e propria magistratura tributaria, indicendo concorsi ad hoc, non per titoli, ma per conclamate competenze. Sembra però che per fare tutto ciò servano un bel po’ di risorse, e in questo momento nessuno saprebbe dove andarle a trovare. Resta però allora una seconda domanda, amaramente retorica: ma come è possibile che in un Paese nel quale da decenni ormai si considera il problema delle tasse, del loro pagamento o della loro evasione, una sorta di questione nazionale, si debba scoprire che proprio su questo fronte si procede, in alcuni ambiti quanto mai delicati, in modo a dir poco approssimativo? E tra l’altro, proprio laddove la pubblica amministrazione avrebbe invece tutto l’interesse a far funzionare al meglio le cose. Come detto, si tratta di una domanda retorica, che però, nel caso delle commissioni tributarie si porta dietro un peso reale e molto ingombrante che vale circa 50 miliardi di euro all’anno. Forse è arrivato il momento, sulla scorta anche dello scandalo in corso, di trovare finalmente una soluzione adeguata.