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Economia

Facciamo il tifo per Giovanni Tria

La strategia corretta del ministro dell'conomia potrebbe fallire per le condizioni politico-istituzionali imposte dal resto del governo Salvini-Di Maio

Ogni giorno che passa c’è un proclama lanciato sui social media, c’è una dichiarazione sparata ai microfoni dai più autorevoli esponenti del governo giallo-verde.

Quatto ministri dell'economia

Tutto ciò suscita la netta impressione che in plancia di comando ci siano quattro ministri dell’economia, anche se l’unico al quale hanno dato retta, almeno finora, quelli che gestiscono i risparmi degli italiani, è il guardiano dei conti pubblici, cioè Giovanni Tria.

Il bicefalo Luigi Di Maio, che sovrintende al lavoro e allo sviluppo, ha varato un decreto che ha suscitato scontento tra industriali e commercianti; se i critici hanno ragione il provvedimento chiamato decreto dignità finirà per aggravare i costi alle imprese e irrigidire il mercato del lavoro, ciò avrà una ricaduta negativa sull’economia. Anche se non richiede un esborso immediato, avrà un impatto posticipato sul pil e sul bilancio dello stato.

Il  ministro degli affari interni Matteo Salvini, nella veste di vicepresidente del consiglio, giura che con la prossima legge di bilancio verrà varata la flat tax, magari a spizzichi e bocconi; il primo boccone sarà per le imprese e i redditi medio-alti, sopra i 20 mila euro l’anno perché così il reddito aggiuntivo potrà colare giù su tutto il resto dell’economia e sulle altre categorie sociali.
Quanto costerà? Venti miliardi secondo alcune stime, o meno della metà per il 2019? Non si sa, Tria fa i conti e su questo glissa, pur non rinnegando gli impegni del contratto di governo.

Poi c’è Paolo Savona il quale in una riunione convocata con la partecipazione di Di Maio e Salvini, per discutere la linea di condotta nei confronti della Unione europea, ha buttato là con calcolata nonchalance una frase da far tremare i polsi sulla incerta “sopravvivenza dell’euro”. Ci risiamo, il calmante propinato finora da Tria ha già esaurito i suoi effetti? Il rischio c’è. E tuttavia il ministro dell’economia non si limita a propinare camomilla.

La politica economica di Tria

La Trianomics, la politica economica di Tria, si basa su una scelta di fondo, spiegata anche in parlamento: fermare la spesa pubblica corrente in termini nominali (aumenterà solo per recuperare l’inflazione) e trovare spazio all’interno degli 800 miliardi di euro erogati ogni anno per accrescere la quota destinata agli investimenti. È questa la partita che vuole giocarsi a Bruxelles, spingendo affinché le erogazioni dello stato destinate agli investimenti escano dal calcolo del deficit.
Tutto il resto è fuffa.

Si tratta in ogni caso di una battaglia non facile, ci provarono già Mario Monti e Romano Prodi senza nessun risultato. Ma oggi il clima nella Ue è cambiato, non è più tempo di austerità e l’importanza degli investimenti pubblici è stata riconosciuta con il piano Juncker anche se non ha dato finora grandi risultati.
In ogni caso perché non accettare lo stesso principio su scala nazionale?

Il vincolo principale naturalmente è il debito pubblico che sottrae risorse (sia risparmio privato sia fondi pubblici) proprio agli investimenti.

Ridurre il debito con la crescita

Tria lo sa bene e per questo ripete in ogni occasione che vuole ridurre il debito con la crescita e nel frattempo tenerlo a bada attraverso lo strumento più diretto: cioè mantenendo il disavanzo pubblico entro i limiti stabiliti, decimale più decimale meno (vuole portare il disavanzo dallo 0,9 previsto nel documento di economia e finanza varato da Pier Carlo Padoan all’1,4-1,4 per cento).

Affinché questa strategia vada a buon fine, è essenziale che la barca segua con coerenza sempre la stessa rotta e non subisca virate di bordo.

Invece, Di Maio va dicendo che vuole escludere dal calcolo del deficit il reddito di cittadinanza, mentre Salvini vorrebbe che non venisse calcolato l’esborso per la flat tax.

Proprio le pressioni da babordo per ridurre le imposte sul reddito e da tribordo per aumentare l’assistenza a chi cerca lavoro, rischiano di far sbandare il povero timoniere.

Quando Tria era solo un economista e collaborava con Renato Brunetta, sosteneva il taglio delle imposte dirette, da finanziare con un aumento dell’Iva lasciando scattare le clausole di salvaguardia. Non era chiaro se ciò avrebbe ridotto la pressione fiscale complessiva, in ogni caso era un modo per far crescere il reddito disponibile e la domanda interna per consumi. Poi, entrato nel governo e pressato da Di Maio che davanti alla platea della Confcommercio ha promesso di non aumentare l’Iva, Tria si è trovato con 12,5 miliardi in meno perché tanti bisogna trovarne per evitare che scatti la tagliola delle imposte indirette.

La manovra sugli investimenti pubblici, ammettendo che il ministro dell’economia riesca a condurla in porto, sarà davvero efficace?
E in che periodo di tempo?

Chi sa come funziona la macchina dello stato non può non essere scettico, basta ricordare che l’Italia è il paese che non è riuscito a spendere i fondi europei. Ci vorrebbero scelte drastiche, in grado di evitare le trappole della burocrazia e la lentezza endemica delle procedure. A quel punto, però, scatterebbe il partito trasversale dei no, che trova sponda nel Movimento 5 Stelle.

Il ministro delle infrastrutture Danilo Toninelli, si è già espresso contro le grandi opere (Tav, Tap, passanti autostradali e quant’altro) alle quali ha opposto la strategia delle piccole opere senza dare indicazioni concrete. Infine bisogna considerare il complesso mediatico-giudiziario che s’avventa su ogni opera pubblica che colpisca l’immaginazione popolare e faccia notizia. Dunque, i punti interrogativi s’affollano: la strategia di Tria è corretta, ma funzionerà in queste condizioni politico-istituzionali?

Il ministro in parlamento ha detto cose sagge anche dal lato della redistribuzione della torta.
A Salvini e a Di Maio che lo tirano ciascuno dalla propria parte ha ribadito che sia la flat tax sia il reddito di cittadinanza vanno fatte insieme, in modo coordinato e per tutti, non a spizzichi e bocconi, per alcune categorie subito, per altre dopo, alle calende greche.

Ciò vuol dire, con ogni probabilità, che non se ne parla nella prossima legge di bilancio, per la quale la priorità resta tenere i conti in ordine e puntare sugli investimenti. Per il resto, bisogna prima far partire i centri per l’impiego e disboscare la giungla degli sconti fiscali. Vedremo se di qui a settembre riuscirà a tenere la linea, certo è che avrà sul collo il fiato sempre più rovente dei dioscuri giallo-verdi.

Nell’interesse del paese e di tutti noi cittadini, c’è da augurarsi che la Trianomics funzioni e il ministro tenga dritta la barra. In caso contrario, tra Scilla e Cariddi, la barca finirà sugli scogli.

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Stefano Cingolani

Stefano Cingolani, nasce l'8/12/1949 a Recanati e il borgo selvaggio lo segna per il resto della vita. Emigra a Roma dove studia filosofia ed economia, finendo a fare il giornalista. Esordisce nella stampa comunista, un lungo periodo all'Unità, poi entra nella stampa dei padroni. Al Mondo e al Corriere della Sera per sedici lunghi anni: Milano, New York, capo redattore esteri, corrispondente a Parigi dove fa in tempo a celebrare le magnifiche sorti e progressive dell'anno Duemila.

Con il passaggio del secolo, avendo già cambiato moglie, non gli resta che cambiare lavoro. Si lancia così in avventure senza rete; l'ultima delle quali al Riformista. Collabora regolarmente a Panorama, poi arriva Giuliano Ferrara e comincia la quarta vita professionale con il Foglio. A parte il lavoro, c'è la scrittura. Così, aggiunge ai primi due libri pubblicati ("Le grandi famiglie del capitalismo italiano", nel 1991 e "Guerre di mercato" nel 2001 sempre con Laterza) anche "Bolle, balle e sfere di cristallo" (Bompiani, 2011). Mentre si consuma per un volumetto sulla Fiat (poteva mancare?), arrivano Facebook, @scingolo su Twitter, il blog www.cingolo.it dove ospita opinioni fresche, articoli conservati, analisi ponderate e studi laboriosi, foto, grafici, piaceri e dispiaceri. E non è finita qui.

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