Merkel - Draghi: il vero obiettivo della telefonata
La Germania vuole l'unione fiscale, ultimo baluardo di potere tedesco nella zona euro
Non deve stupire la telefonata fra Angela Merkel e Mario Draghi, riportata da Der Spiegel. Poco importa chi abbia chiamato chi. Secondo le indiscrezioni, il cancelliere tedesco ha chiesto ragguagli al presidente della Banca centrale europea riguardo al percorso che porterà alla nuova eurozona, di cui l’unione bancaria è solo uno dei primi passi. Rumors smentiti da Steffen Seibert, portavoce di Merkel, ma che potrebbero avere un fondo di verità. Infatti, la Germania vuole l’unione fiscale perché sa che è l’ultimo baluardo di potere nella zona euro, e le parole di Draghi da Jackson Hole sulla gestione delle politiche fiscali da parte degli Stati membri hanno fatto suonare un campanello d’allarme a Berlino.
OBIETTIVO: UNIONE FISCALE
Qualunque sia stato il contenuto, la telefonata fra Merkel e Draghi,
al fine di essere compresa, deve essere messa in relazione con
l’opinione, pubblicata sul Financial Times , di Wolfgang Schäuble e Karl Lamers sui
problemi che affliggono la zona euro. Il ministro tedesco delle
Finanze e il politico della CDU, esperto di politica estera, hanno
rilanciato su una vecchia idea della Germania, ovvero l’istituzione di
un commissario Ue per il budget, in grado di bocciare i programmi
nazionali nel caso non rispettino le regole comuni, che può essere il
primo passo verso l'unione fiscale.
Non è la prima volta che si avanza questa richiesta. Il potere di veto sotto il profilo delle politiche fiscali nazionali rappresenterebbe il passo più grande verso quella federazione di Stati che l’Europa cerca dal 1954 e che non è ancora riuscita a raggiungere. Uno dei maggiori ostacoli, osservano Schäuble e Lamers, è che la maggior parte degli Stati membri non ha voglia di cedere sovranità all’Europa. I motivi sono i più svariati, più o meno fondati. La Francia non è disposta a cedere sulla gestione dei conti pubblici per motivi ideologici che rimandano all’epoca napoleonica. Il Regno Unito non vuol sentire parlare di concessioni sulla gestione dei mercati finanziari. L’Italia continua a essere divisa, senza una posizione chiara. Eppure, ricordano i due, non c’è altra via possibile se non quella di una maggiore integrazione della zona euro.
COSA VUOLE LA GERMANIA
Perché? E cosa vuole la Germania? Una volta creata l’unione monetaria,
i policy maker si sono resi conto che questa era imperfetta. Non aveva,
per esempio, un significativo meccanismo di gestione delle crisi
finanziarie e bancarie. Per questo sono arrivati il fondo European
financial stability facility (Efsf) prima e lo European stability
mechanism (Esm) dopo. Per questo è stato introdotto dalla Bce uno
strumento di azione sui mercati obbligazionari in caso di stress,
ovvero le Outright monetary transaction (Omt). Per questo è arrivato
il Single supervisory mechanism (Ssm) e il Single resolution mechanism
(Srm), ovvero i cardini dell’unione bancaria. Ed è sempre per questo
motivo che la Bce si sta sobbarcando la più grande verifica di
bilancio della storia della zona euro, il Comprehensive assessment.
I tassi bassi sul mercato obbligazionario sono merito (anche, ma non solo) di questi sforzi, riconosciuti senza indugi dagli investitori istituzionali. Ma quest’ultimi, che guardano sempre più al lungo termine, sanno che non è abbastanza. La lentezza con cui alcuni Stati membri stanno introducendo le riforme strutturali necessarie può avere danni irreversibili nel lungo periodo, condannando la zona euro a uno scenario simile a quello vissuto dal Giappone negli anni Novanta. Uno scenario fatto di bassa crescita, alto debito, poca competitività internazionale. Essendo venuta meno la pressione sulle riforme da parte dei mercati finanziari, i governi hanno gigioneggiato, procrastinando gli impegni presi in precedenza.
Del resto, è questo il modo per mantenere elevata la popolarità di un esecutivo presso l’opinione pubblica (il caso di François Hollande è indipendente da ciò, ndr). Dopo aver chiesto più certezza sotto il profilo bancario, gli investitori stanno già chiedendo più certezza sul versante fiscale. Questo si traduce in mantenimento delle promesse riformiste, rispetto dei vincoli di bilancio e processo di innovazione dei fattori produttivi. Sennò il rischio che si corre è lo stesso che si è osservato negli anni successivi al Trattato di Maastricht. Date le regole di bilancio (rapporto deficit/Pil al 3%, rapporto debito/Pil al 60%), la loro applicazione negli anni è stata oggetto di continue deroghe, concessioni e sforamenti. Come si può investire in un’area che dice di autoregolarsi ma poi non riesce a farlo? Allo stesso modo, come investire a lungo termine in un’area che è riluttante a innovarsi sul versante produttivo se non c’è una coercizione esterna?
E poi c’è Berlino. Consapevole dei rischi che potrebbero materializzarsi con la disgregazione dell’unione monetaria, è sicura che la strada migliore sia rappresentata dall’unione fiscale. Anche perché ha già perso una pedina fondamentale come la vigilanza bancaria unica, che è finita in seno alla Bce. Facile quindi comprendere perché Berlino voglia l’unione fiscale almeno quanto i mercati finanziari. Perché è il solo modo che ha per mantenere una certa forma di controllo e potere all’interno dell’area euro.