Il futuro dell'Europa tra errori da evitare e rischio stagnazione
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Economia

Il futuro dell'Europa tra errori da evitare e rischio stagnazione

L'eurozona continua a cercare un equilibrio che non trova. Chi invoca austerity, chi la crescita. Sullo sfondo, il grande nemico: senza riforme, la paralisi

L’emergenza potrà anche essere finita, ma la situazione resta grave e precaria. L’eurozona continua a cercare un equilibrio che sembra impossibile da trovare. Da un lato c’è chi invoca più austerity, ricordando che il consolidamento fiscale è necessario per essere virtuosi nel lungo termine. Dall’altro chi desidera aumentare la spesa pubblica in modo da rilanciare l’economia interna. In mezzo c’è un’area economica che fatica a trovare una stabilità. Sullo sfondo, un rischio peggiore della disgregazione dell’euro: la stagnazione secolare

C'era una volta l'Austerity

Fra il 2010 e il 2013 il tema principale era l’austerity. O meglio, la corretta applicazione di quelle misure fiscali che, in un’ottica di lungo periodo, dovrebbero garantire una piena sostenibilità dei conti pubblici. Il fronte pro-austerity era guidato dalla Germania, ma non solo. La Commissione europea, tramite l’introduzione dei programmi di aggiustamento in Grecia, Portogallo, Irlanda e Cipro, ha tentato di correggere il tiro, insieme al Fondo monetario internazionale (Fmi) e la Banca centrale europea (Bce). La Troika ha commesso però diversi errori. Il maggiore è stato ritenere che a ogni Paese si potesse applicare un modello analogo. Il risultato nel breve è stato devastante, ma calcolato. Il consolidamento fiscale ha avuto effetti recessivi in diversi Paesi e ha demolito l’appeal dei governi che hanno adottato queste politiche. 

Il cambio di rotta

Poi, è successo qualcosa di prevedibile. Gli attacchi alla troika hanno quasi costretto la classe dirigente della zona euro a mutare atteggiamento. In bilico c’era il rapporto con l’opinione pubblica e quindi, l’elettorato. In Grecia come in Germania e come in Italia, basti ricordare la popolarità del governo di Mario Monti, i politici e i policymaker hanno cambiato narrativa della crisi. Si è passati, nemmeno troppo lentamente, dal considerare l’austerity come unica soluzione a una crisi strutturale, che ha fondamenti economici, finanziari, politici, sociali e demografici, al considerare la crescita, intesa come un aumento della spesa per gli investimenti, come la chiave di volta. Il tutto con la complicità della Bce. Paradossalmente, salvando l’euro ha contribuito a creare un clima distorto sul mercato obbligazionario, mitigando il rischio Paese e illudendo i governi che la crisi fosse finita. Un errore senza precedenti. 

Le conseguenze

Due le conseguenze. La prima riguarda il meccanismo di incentivi alle riforme strutturali che i Paesi dell’area euro devono adottare per riguadagnare competitività e credibilità agli occhi degli investitori internazionali. Le azioni della Bce, che sono state fondamentali per la riduzione del rischio di convertibilità della moneta unica, hanno spostato il focus della discussione verso il fronte delle politiche espansive, dimenticando la virtuosità delle finanze pubbliche. Più i tassi sull’obbligazionario si abbassavano, più i politici si sentivano legittimati a dimenticare gli obiettivi di bilancio. Ma i problemi di fondo - bassa crescita, alto debito, scarsa competitività - non sono stati risolti. Anzi, si sono acuiti. 

L’altra conseguenza è quella che stiamo osservando da circa oltre un anno. Chi prima, come la Francia e la Spagna, e chi dopo, come l’Italia, stanno chiedendo deroghe al Fiscal compact, ovvero lo strumento che, nell’ottica della Commissione europea, dovrebbe mettere in sicurezza i conti pubblici dei Paesi meno virtuosi. Due i vincoli principali, gli stessi del Trattato di Maastricht del 1992: rapporto deficit/Pil entro il 3%, rapporto debito/Pil entro il 60 per cento. Non solo. I Paesi devono raggiungere un equilibrio di bilancio strutturale, ovvero il rapporto fra entrate e uscite al netto delle misure una tantum. Parigi non ci sta e pretende due anni in più rispetto al previsto. La Spagna idem. L’Italia pure. In pratica, si sta snaturando l’intento originario del Fiscal compact. Proprio come avvenne per Maastricht.


La guerra sull’austerity sarà vinta da Berlino, non da Parigi


Gli errori da non (ri)commettere

Quando il presidente della Bce Mario Draghi domanda aiuto ai governi, chiedendo loro di non dimenticare di fare quanto promesso, fa un riferimento implicito agli errori che non vanno commessi. Non si deve infatti più ripetere quanto accaduto dopo il 1992. Il Far West dei conti pubblici, in cui ognuno cura i propri interessi nazionali e nulla più, è il modo perfetto per perdere credibilità verso i mercati finanziari e per andare verso una lenta autodistruzione.
La crisi che ha sconvolto l’eurozona non è solo passeggera. Il contesto in cui si inserisce è globale. Non è solo l’area euro a essere in difficoltà, bensì la maggior parte delle economie sviluppate. Dal 2007 a oggi non si è ancora trovato un nuovo modello di sviluppo, capace di superare gli squilibri naturali del capitalismo, come la mancanza di vigilanza macroprudenziale in economie che passano dall’essere chiuse all’essere aperte in pochi anni. Ma se gli USA hanno puntato sull’innovazione, modificando parzialmente i fattori di produzione e l’output generale, questo non è avvenuto nella zona euro, che rimane un’area oggettivamente più obsoleta rispetto agli Stati Uniti. 

Il rischio della stagnazione secolare

Il terremoto dei subprime è nulla in confronto al rischio che corre l’eurozona, quello della Secular stagnation, la stagnazione secolare. Poche settimane fa, il Fondo monetario internazionale ha parlato apertamente di questo pericolo con riferimento all’Italia. Poche righe dentro l’Article IV Consultation relativo al nostro Paese, il rapporto periodico che l’istituzione di Washington pubblica. Invocare più flessibilità di bilancio, senza però fornire un contraltare adeguato come le riforme strutturali, potrà anche aumentare la popolarità del governante di turno, ma non garantisce una sostenibilità nel lungo periodo. Né sotto il profilo dei conti pubblici, né sotto quello della competitività.

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Fabrizio Goria

Nato a Torino nel 1984, Fabrizio Goria è direttore editoriale del sito di East, la rivista di geopolitica. Scrive anche su Il Corriere della Sera e Panorama. In passato, è stato a Il Riformista e Linkiesta e ha scritto anche per Die Zeit, El Mundo, Il Sole 24 Ore e Rivista Studio. È stato nominato, unico italiano, nella Twitterati List dei migliori account Twitter 2012 da Foreign Policy.

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