Europa: i tre obiettivi economici per l'Italia
Economia

Europa: i tre obiettivi economici per l'Italia

Secondo l'economista Quadrio Curzio sono: meno burocrazia, meno spesa pubblica improduttiva e riduzione del divario Nord/Sud

“Ce lo chiede l’Europa” è stato il mantra che ha ispirato il governo tecnico di Mario Monti ora in corso di smobilitazione. Poco più di un anno dopo molti desiderata sono stati esauditi, a caro prezzo; lo spread non ci tormenta più; il quadro continentale sembra essersi rasserenato, ma non si può certo dire che la crisi sia passata, come confermano gli ultimi dati Istat sull’inflazione. I consumi calano ma i prezzi aumentano: qualcosa non gira per il verso giusto, siamo in piena stagflazione. Molto resta da fare, evitando di uccidere il cavallo per eccesso di cure. La sorpresa di questi ultimi giorni è che la terapia adesso sembra interessare gli Stati Uniti, come sottolinea l’ultima copertina dell’Economist. Il presidente Obama ha scavalcato il “baratro fiscale” ma il debito pubblico resta superiore a quello europeo e qualcuno comincia a far notare che forse il rigore di Berlino non è poi così tanto sbagliato. E addirittura indica l’Eurozona come un modello da studiare con attenzione e forse da seguire.

«La scelta europea è stata molto dura, perché la crescita della disoccupazione è evidente ed è un segno negativo», osserva il professore Alberto Quadrio Curzio, economista tra i più attenti osservatori dei travagli europei. «L’Europa ha attuato e chiesto di attuare politiche fiscali particolarmente dure in un quadro di incertezza delle decisioni che ha finito per penalizzare i paesi periferici».

Ma può essere un modello per gli Stati Uniti?
Noi abbiamo i loro problemi di finanza pubblica. Se si confronta il deficit sul pil l’Europa è tra il 3% e il 4%, gli Stati Uniti tra l’8% e il 9%. Ma nel 2013 nell’Eurozona la crescita sarà zero e negli Usa fra il 2% e il 3%, La disoccupazione Usa è sotto l’8%, noi andiamo verso il 12%. In più gli Stati Uniti hanno il vantaggio di una valuta cruciale nel commercio mondiale. Cosa che non è per l’euro.

Quindi il confronto non è possibile?
Diciamo che loro possono permettersi rischi maggiori di finanza pubblica, perché hanno un’economia più tonica e una valuta cardine per i prezzi e le riserve valutarie mondiali. E poi ho la sensazione che stiano facendo un’importante inversione di rotta

In che senso?
Stanno imboccando l’uscita dalla crisi non solo con azioni fiscali o finanziarie ma con una nuova politica di industrializzazione. Dopo anni di delocalizzazione tornano a fare industria in casa, grazie all’innovazione e allo sfruttamento di nuove fonti di energia. Dopo il ciclo della grande euforia finanziaria, si sta muovendo qualcosa di nuovo che dovremo seguire con grande attenzione. Siamo di fronte a una nuova tipologia di crescita.

Che cosa deve ancora fare l’Italia per restare al passo con l’Europa?
Ha fatto importanti manovre fiscali che ci porteranno al pareggio strutturale già quest’anno o al massimo nel 2014, unico Paese dell’Eurozona, insieme alla Germania, a raggiungere l’obiettivo prima del 2015. Anche se questa politica sta indebolendo l’economia reale.

C’è ancora qualcosa da fare che ci chiede l’Europa, indipendentemente dal governo che uscirà dalle elezioni?
Non dobbiamo soddisfare richieste esterne. Ma agire per rilanciare il Paese e aumentarne la competività internazionale. Nel medio e lungo termine abbiamo bisogno di continuità nelle scelte di politica economica per affrontare i nostri problemi strutturali più seri.

Quali sono?
Il primo è l’eccesso di apparato burocratico legato alla proliferazione normativa: resta un fattore di scoraggiamento della crescita e un costo improprio per le imprese. Serve un alleggerimento della pubblica amministrazione. A questo tema è collegata la necessità di una decisione sull’ipotesi federalista. Il federalismo cooperativo può essere una forma utile per ristrutturare il funzionamento della macchina pubblica. È 20 anni che andiamo verso una prefigurazione federalista, la riforma costituzionale è del 2001, non è semplice invertire marcia. Il prossimo governo dovrà dare una risposta alla domanda: che fare?

Il secondo nodo strutturale?
Il divario Nord/ Sud da affrontare con politiche in continuità, qualunque sia la maggioranza politica. Far decollare il Mezzogiorno è un problema ma anche un’opportunità, perché rappresenta uno spazio di crescita formidabile.

Il terzo tema decisivo?
L’entità del debito pubblico, che non vedo aggredibile con manovre di finanza straordinaria, tipo patrimoniale, che rischiano di ridurre l’attenzione sul vero problema strutturale: la spesa pubblica improduttiva. Va tagliata con decisione, ricollocando le risorse su attività produttive in grado di produrre reddito.

Questi tre nodi richiedono tempo per essere sciolti. Cosa bisogna invece fare a breve termine?
Credo si debba trovare una soluzione per alleggerire il carico fiscale, sia sul lavoro e sia sulle imprese. Si avrebbe effetti positivi sulla competitività e sugli investimenti.

Ma dove si trovano i soldi per poterlo fare?
Mettendo a frutto il patrimonio pubblico con modalità nuvoe. Quello che sta facendo la Cassa Depositi e Prestiti è importante e può essere sviluppato, sul modello delle Casse francese e tedesca che sono molto più grandi. E non c’è alcun rischio Iri, che prendeva aziende decotte. Fondi immobiliari  ben gestiti potrebbe dare risultati importanti e liberare risorse decisive per rilanciare la competitività del Paese.

L’Europa, però, ci dice ancora di liberalizzare…
D’accordo, ma noi abbiamo problemi ben più profondi delle liberalizzazioni.

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Giovanni Iozzia

Ho lavorato in quotidiani, settimanali e mensili prevalentemente di area economica. Sono stato direttore di Capital (RcsEditore) dal 2002 al 2005, vicedirettore di Chi dal 2005 al 2009 e condirettore di PanoramaEcomomy, il settimanale economico del gruppo Mondadori, dal 2009 al maggio 2012. Attualmente scrivo su Panorama, panorama.it, Libero e Corriere delle Comunicazioni. E rifletto sulle magnifiche sorti progressive del giornalismo e dell’editoria diffusa.  

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