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Economia

Cina e Stati Uniti, le ragioni della guerra dell'acciaio

Anche l'Europa è una vittima delle pratiche sleali cinesi

Appena un paio di mesi fa un gruppo di nazioni europee aveva chiesto a Pechino di limitare la produzione nazionale di acciaio e alluminio per evitare di creare eccessive distorsioni sul mercato internazionale di questi metalli. Nel frattempo, l'export cinese di acciaio è aumentato del 30 per cento, raggiungendo il tetto dei 10 milioni di tonnellate (più dell'intera produzone mensile americana), quello di semilavorati in alluminio del 50, e questa settimana gli Stati Uniti hanno deciso di aumentare le tariffe sulle importazioni di acciaio provenienti dalla Repubblica popolare del 522 per cento. Cosa sta succedendo? Ci troviamo forse nel bel mezzo dell'ennesima guerra commerciale tra Cina e Occidente?

Le origini del dissidio

La vera origine del problema è, tanto per cambiare, la crisi finanziaria globale, che ha avuto ripercussioni pesantissime sui flussi di esportazioni cinesi e che ha creato nella Repubblica popolare una crisi di sovrapproduzione che Pechino non sa più come gestire. Per assorbire le eccedenze senza tagliare troppi posti di lavoro e senza far rallentare troppo l'economia il paese ha tentato di tutto: dal rilancio della domanda interna, all'upgrade tecnologico e industriale, senza dimenticare gli investimenti in infrastrutture prima solo all'interno poi anche all'esterno dei confini nazionali. Niente da fare: l'economia non è ripartita, e così, per tenere a galla alcuni dei pilastri del proprio mercato, il governo ha approvato una serie di misure che, di fatto, hanno ridotto i costi di produzione in alcuni comparti industriali, come queli dell'alluminio e dell'acciaio, e le abbondanti forniture cinesi hanno conquistato tutto il mondo grazie ai loro prezzi stracciati.

Concorrenza sleale

Se così facendo l'industria cinese è riuscita a sopravvivere, non possiamo dire la stessa cosa per quella americana ed europea. I dati più recenti parlano infatti di una riduzione del 20 per cento di posti di lavoro nel Vecchio Continente, pari a 75mila posti di lavoro, e altri 12mila si sarebbero volatilizzati in America. Messi alle strette, Stati Uniti, Italia, Polonia, Belgio, Francia, Germania, Lussemburgo, Gran Bretagna e una serie di altre nazioni hanno chiesto a Pechino di ridurre i livelli di produzione dell'acciaio per non uccidere il settore siderurgico nel resto del mondo. Non solo, l'Europa ha poi micacciato di avviare un'indagine per verificare se la vendita di acciaio sottocosto sui mercati di tutto il mondo fosse una conseguenza dell'adozione cinese di pratiche commerciali scorrette.

La reazione di Pechino

La minaccia europea ha infastidito non poco Pechino, che tuttavia si è difesa sostenendo di non aver elargito alcun sussidio nei settori sotto accusa, ma di essersi semplicemente spesa per "evitare che le aziende nazionali soffrissero troppo a causa di una congiuntura internazionale sfavorevole". La Cina si difende sostenendo anche di non aver "regalato" nessun finanziamento. Il paese si sarebbe infatti limitato ad aumentare gli sgravi fiscali per le aziende e avrebbe aprovato sussidi solo sui costi di acqua ed elettricità. 

La Cina non è l'unico problema in Asia

Da notare come la Cina non sia l'unico paese al mondo che vende acciaio a prezzi di favore. Giappone e Corea del Sud avrebbero infatti ridotto i prezzi per l'esportazione del 60 per cento, mantenendo però tariffe in linea con quelle internazionali per il mercato interno. 

Le ragioni della scelta americana

Mentre sono sempre di più le aziende siderurgiche europee e americane che chiedono l'approvazione di un divieto di importazione per i prodotti in arrivo dall'Oriente, è sempre più probabile che anche per quel che riguarda l'acciaio stia scoppiando una nuova guerra che verrà combattuta in tribunale. Se in linea teorica nessuno dei due schieramenti è disposto a cedere perché, se lo facesse, si ritroverebbe ad affrontare nuove difficoltà sul fronte interno, è anche vero che senza un dialogo costruttivo (in questo caso, ad esempio, potrebbe essere utile imporre limiti di prezzo e un tetto massimo alla produzione mondiale) non verrà mai raggiunto alcun compromesso. 

In nodo dello status di economia di mercato

Alla luce di queste ultime evoluzioni, non stupisce che il Parlamento Europeo abbia votato contro il riconoscimento dello status di economia di mercato alla Repubblica popolare cinese. A prescindre dalla paura irrazionale per le conseguenze dovute a una maggiore integrazione di un attore imprevedibile come la Cina nelle dinamiche commerciali internazionali, non è certo in un contesto minato da dispetti, pregiudizi e pratiche sleali che si possono valutare pro e contro di questa importantissima apertura. 


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Claudia Astarita

Amo l'Asia in (quasi) tutte le sue sfaccettature, ecco perché cerco di trascorrerci più tempo possibile. Dopo aver lavorato per anni come ricercatrice a New Delhi e Hong Kong, per qualche anno osserverò l'Oriente dalla quella che è considerata essere la città più vivibile del mondo: Melbourne. Insegno Culture and Business Practice in Asia ad RMIT University,  Asia and the World a The University of Melbourne e mi occupo di India per il Centro Militare di Studi Strategici di Roma. Su Twitter mi trovate a @castaritaHK, via email a astarita@graduate.hku.hk

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