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Economia

L'Italia del Def: cosa c'è e cosa manca

I conti pubblici restano appesi a un filo sottile. Basta qualche scossa dai sindacati e un po’ di tensione parlamentare per perdere l’equilibrio

Consumata la soddisfazione per una ripresa che sta andando meglio del previsto, Pier Carlo Padoan ha aggiornato il Documento di economia e finanza ipotizzando che la congiuntura favorevole continui fino al 2019 e il prodotto lordo cresca allo stesso ritmo (1,5% l’anno). Ora il ministro dell’economia si preparara a varare una manovra all’insegna della prudenza.

Fare il meno possibile, non turbare il movimento spontaneo del mercato, è questa la parola d’ordine lanciata al parlamento e alle forze sociali, perché la campagna elettorale già scalda i muscoli dei partiti e la crescita economica eccita i sindacati.

Passata è la tempesta ed è il momento di far festa. Tuttavia, meglio attendere prima di stappare lo champagne. Intanto bisogna trovare 15,7 miliardi di euro per disinnescare le clausole di salvaguardia e impedire che scatti l’aumento delle imposte indirette. E su un pacchetto complessivo di 20 miliardi concordato con Bruxelles resta davvero poco per l’occupazione, i contratti degli statali, le pensioni e tutte le altre richieste che piovono sul tavolo del governo.

LA CRESCITA

L’ipotesi chiave è che l’aumento della domanda estera e il risveglio dei consumi interni possano continuare anche in assenza di stimoli e incentivi pubblici. Si presuppone che le variabili esterne restino immutabili per altri due anni a cominciare dalla politica monetaria. È vero, Mario Draghi farà del tutto per mantenere i tassi al livello più basso possibile, ma chissà se gli sarà possibile. Dipende da quanto rapidamente si muoverà la Federal Reserve che ha deciso comunque di rialzare gli interessi sul dollaro, e da come si orienterà il prossimo governo tedesco. I maligni dicono che Pier Carlo Padoan ha rialzato le previsioni di crescita fino al 2019 (quando scade il mandato di Draghi, tra l’altro) perché così può mostrare a tutti (alla Ue, ai mercati, ai partiti) che il debito pubblico scende sia pur di poco. Ma la legislatura sta finendo e la prossima dovrà comunque gestire una montagna da duemila miliardi.

IL DEBITO

Grazie alla maggiore crescita programmata, come abbiamo visto, il debito dovrebbe cominciare a scendere da 131,6% a 130% nel 2018. Va notato che senza il salvataggio pubblico delle banche il debito sarebbe stato inferiore di almeno sei decimali di punto, crca 10 miliardi in meno. Il Monte dei Paschi di Siena è costato 5,4 miliardi, le banche venete (Popolare di Vicenza e Veneto Banca) sono in bilancio per 4,8 miliardi, insomma in tutto 11,2 miliardi sui 20 messi a disposizione dal governo nel decreto dello scorso dicembre.

IL DEFICIT

Da dove verrano i 15,7 miliardi per evitare l’aumento dell’Iva? In gran parte dall’aumento del deficit. Il disavanzo pubblico, che chiude l’anno con il 2,1%, sarà di 1,6% nel 2018 superiore di sei decimali rispetto alla sua dinamica tendenziale (cioè senza interventi del governo). Quello 0,6% ammonta a circa 10 miliardi. E gli altri? Di qui alla presentazione della legge di bilancio tra un paio di settimane, Padoan dovrà trovare una soluzione. Ci sarà l’immancabile lotta all’evasione o una nuova rottamazione delle cartelle esattoriali, ma se ne sentono parecchie in questi giorni. Non v’è più molto da attendersi, invece, dalla mitologica spending review.

L’OCCUPAZIONE

È vero che aumentano gli occupati (anche se per lo più a tempo determinato) e si stanno recuperando i posti perduti con la lunga recessione (circa un milione), tuttavia il tasso di disoccupazione resta troppo alto (di poco inferiore all’11%) con un frattura generazionale allarmante, come ha denunciato lo stesso Draghi. Ebbene, nel menu della prossima manovra è previsto appena 1 miliardo per ridurre i contributi previdenziali a chi ha meno di 29 anni. Si pensi che la Confindustria aveva chiesto ben 10 miliardi su più anni per tagliare il cuneo fiscale e decontributivo. Non c’è molto nemmeno per prorogare il super-ammortamento per le imprese che rinnovano i macchinari: si calcola un miliardo e 200 milioni che ridurrebbe il beneficio grazie al quale sono ripartiti quest’anno gli investimenti.

IL PUBBLICO IMPIEGO

Il paradosso è che per rinnovare gli stipendi degli statali che hanno un posto garantito (per loro non vale il Jobs act) sono in bilancio 2 miliardi, più di quel che si spende per aiutare a trovare un lavoro. È vero, la coperta è corta, ma non sfugge la componente elettorale dietro una scelta del genere. La sicurezza incombe, come negare la giusta mercede alla polizia o alle forze armare? E i magistrati? Si può trascurare il potere giudiziario diventato in Italia il più potente di tutti i poteri? E così via spendendo.

LE PENSIONI

I sindacati hanno già alzato la posta. In testa a tutto c’è la richiesta di fermare il meccanismo automatico che allunga l’età pensionabile fino ad arrivare ai 67 anni d’età previsti dalla legge Fornero nel 2019. Una operazione del genere costerebbe circa 2,5 miliardi l’anno. Se si aggiunge la flessibilità per le lavoratrici con figli, l’onere raddoppia. Il governo ha messo le mani avanti: “Nessun intervento generalizzato”. Ma Susanna Camusso, segretaria della Cgil, non ci sta: “Allora sarà rottura”, ha annunciato.

LE TASSE

La pressione fiscale si riduce, annuncia il governo, ma di appena lo 0,1% perché la nota di aggiornamento del Def scrive che le tasse peseranno per il 42,6% sul reddito nazionale quest’anno rispetto al 42,7% del 2016. Non ci saranno novità significative nel 2018. Il mantra di Padoan è che dal 2013 in qua gli italiani hanno pagato 20 miliardi di tasse in meno (tra Irap, Imu, Tasi, Ires). E in ogni caso viene evitato l’aumento dell’Iva che sarebbe davvero un colpo mortale. Il bicchiere, dunque, è mezzo pieno? Mica tanto. Si potrebbe dire che una pressione fiscale tra le più alte della zona euro è l’altra pesante eredità, insieme al debito pubblico e alla disopccupazione, che viene scaricata sulla prossima legislatura.

Insomma, nonostante il miglioramento della congiuntura, i conti pubblici sono appesi a un filo sottile. Basta davvero poco, qualche scossa dai sindacati e un po’ di prevedibile fibrillazione parlamentare, per far perdere l’equilibrio.

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Stefano Cingolani

Stefano Cingolani, nasce l'8/12/1949 a Recanati e il borgo selvaggio lo segna per il resto della vita. Emigra a Roma dove studia filosofia ed economia, finendo a fare il giornalista. Esordisce nella stampa comunista, un lungo periodo all'Unità, poi entra nella stampa dei padroni. Al Mondo e al Corriere della Sera per sedici lunghi anni: Milano, New York, capo redattore esteri, corrispondente a Parigi dove fa in tempo a celebrare le magnifiche sorti e progressive dell'anno Duemila.

Con il passaggio del secolo, avendo già cambiato moglie, non gli resta che cambiare lavoro. Si lancia così in avventure senza rete; l'ultima delle quali al Riformista. Collabora regolarmente a Panorama, poi arriva Giuliano Ferrara e comincia la quarta vita professionale con il Foglio. A parte il lavoro, c'è la scrittura. Così, aggiunge ai primi due libri pubblicati ("Le grandi famiglie del capitalismo italiano", nel 1991 e "Guerre di mercato" nel 2001 sempre con Laterza) anche "Bolle, balle e sfere di cristallo" (Bompiani, 2011). Mentre si consuma per un volumetto sulla Fiat (poteva mancare?), arrivano Facebook, @scingolo su Twitter, il blog www.cingolo.it dove ospita opinioni fresche, articoli conservati, analisi ponderate e studi laboriosi, foto, grafici, piaceri e dispiaceri. E non è finita qui.

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