Quando gli Agnelli si comportano da lupi
Economia

Quando gli Agnelli si comportano da lupi

Che cosa è più grave, il miliardo di euro che Gianni Agnelli avrebbe nascosto al fisco italiano e alla sua famiglia (vicenda destinata a restare oscura anche perché Svizzera e Liechtenstein non collaborano a chiarirla)? O il modo in …Leggi tutto

 

Che cosa è più grave, il miliardo di euro che Gianni Agnelli avrebbe nascosto al fisco italiano e alla sua famiglia (vicenda destinata a restare oscura anche perché Svizzera e Liechtenstein non collaborano a chiarirla)? O il modo in cui gli eredi si sono garantiti il controllo della Fiat sborsando un’inezia rispetto al risultato? Cioè 149 milioni di euro per un gruppo che allora fatturava 46 miliardi con 173 mila dipendenti? Dal punto di vista simbolico senza dubbio il primo: l’Avvocato, maestro di stile,  circondato ancor oggi dalle fruscianti livree del servo encomio, scende al livello di un qualsiasi evasore fiscale, per lo più meschino al punto dal nascondere le sue ricchezze alla figlia Margherita. Sul piano etico non c’è molta differenza. Per il suo valore sistemico, invece, l’operazione Exor appare senza dubbio peggiore. 

Prima di spiegare il perché, ricordiamo che oggi Exor, la cassaforte che ha inglobato Ifi e Ifil e detiene il 30,3 per cento del gruppo Fiat, può contare su un effetto leva altissimo: a ogni euro del controllante ne corrispondono 13,6 conferiti dagli azionisti di minoranza e dai creditori. Prima di Exor arriva la Cofide di Carlo De Benedetti con uno euro ogni 13,8; per Italmobiliare (Pesenti) siamo a 7,1, per Benetton a 5,3, Fininvest solo 1,7.  Ed è proprio allo scopo di mantenere il controllo nelle mani della famiglia senza passare per il mercato con una offerta pubblica di acquisto che Gianluigi Gabetti, la mente finanziaria, e Franzo Grande Stevens, la mente giuridica, concepiscono il piano in quel cruciale 2005 in cui le banche avrebbero potuto convertire in azioni il prestito di tre miliardi di euro concesso tre anni prima.

Gabetti e Grande Stevens, i dioscuri biancochiomati ai quali la famiglia si è sempre affidata, sono stati condannati in appello a un anno e quattro mesi per manipolazione del mercato. L’operazione è molto complessa e la riassumiamo per sommi capi. Su un foglio di carta a quadretti, il 1° dicembre 2004 Virgilio Marrone alto dirigente di IFI e consigliere della Fiat, scrive a mano una nota “riservata” per Gabetti. L’amministratore avverte che se le banche esercitassero il “convertendo” anche solo per due terzi (2 miliardi) “si avrebbe una diluizione della partecipazione al capitale ordinario Fiat dal 30,06 a circa il 24 per cento”. Per mantenere la stessa quota, l’accomandita dovrebbe acquistare, prima dell’aumento di capitale, 58.467.000 azioni Fiat” a un prezzo che, a seconda della quotazione (ipotizzata tra il 6 e gli 8,5 euro), varierebbe tra 351 e 497 milioni. Subito dopo Marrone ricorda che “la disponibilità dell’accomandita è pari a circa 510 milioni”.  Dunque, i soldi non ci sono. Come fare?

Il 23 aprile 2005, un noto avvocato torinese, Angelo Benessia, vicepresidente di Rcs e candidato del sindaco Sergio Chiamparino a succedere a Grande Stevens alla presidenza della Compagnia di San Paolo,  racconta che Lehman Brothers avanza alle banche del “convertendo” la proposta di “investitori privati italiani ed esteri, famiglie italiane con vocazione industriale e investitori istituzionali” che si offrono di creare una nuova società che rilevi il convertendo e realizzi un “patto di joint governance con l’Ifil” che “coinvolgerebbe circa il 50 per cento di Fiat senza obbligo di Opa”. Il 26 aprile, Ifil chiude con Merril Lynch Italia, attraverso la “Exor”, domiciliata a Vaduz, un contratto di “equity swap” per 90 milioni di azioni Fiat. Exor è controllata per il 70% dall’accomandita della famiglia Agnelli e per il 30% da Ifil, la finanziaria internazionale controllata a sua volta da Ifi.

Gabetti sostiene che quel contratto aveva, all’epoca, solo scopi speculativi: “Esso fu originato dalla sorpresa causata dall’improvvisa caduta della quotazione del titolo… Solo a fine agosto prese corpo un vero progetto per reperire con urgenza la disponibilità del pacchetto di azioni necessarie”. Ma già il 16 maggio 2005, su alcuni fogli di carta a quadretti, compaiono le simulazioni di un accordo tra Ifil, Mediobanca e Generali. I due istituti conferirebbero 12 milioni di azioni ciascuno per un totale equivalente al 2,99 per cento delle azioni in modo da evitare l’obbligo dell’Opa che scatta oltre il 3 per cento. Un’ulteriore specificazione chiarisce che “a seguito dei conferimenti ipotizzati, da Mediobanca e Generali, l’esercizio dell’equity swap si riduce da 90 a 66 milioni di azioni”. Dunque, lo swap era parte integrante di una operazione per assicurarsi il controllo. E non ci sarà bisogno di un nuovo patto di sindacato. 

L’Exor rileva da Merrill Lynch le azioni che quest’ultima aveva acquistato per conto dell’Ifil al valore di 5,6 euro per rivenderle immediatamente all’Ifil a 6,5. Realizza così una plusvalenza di 91 milioni per i suoi azionisti. L’Ifil risparmia a sua volta 100 miliardi, calcolando quanto sarebbe costato comprare i titoli direttamente sul mercato. Gli azionisti di minoranza non sanno nulla, tanto meno le banche. Tutto si svolge nella opacità tra le nebbie del Liechtenstein e le brume del Lussemburgo. E questo lo chiamano mercato?

Una volta tanto non possono farci lezione i tedeschi, visto che la famiglia Porsche è accusata in Germania di aver fatto trucchi molto simili per riprendere il controllo di Volkswagen. Quanto agli Stati Uniti, i Ford hanno il 40% dei diritti di voto pur possedendo il 15 per cento dei titoli, grazie al trucchetto molto in voga delle azioni di classe A e B. Così fan tutti? Finché glielo lasciano fare. Una grande impresa moderna non è come la roba di mastro don Gesualdo. E le borse mondiali non sono il suk. Il mercato è fatto di uomini che scambiano merci e denaro seguendo le leggi e le istituzioni. Sono queste ultime che non hanno funzionato nel caso degli eredi Agnelli o dei Porsche. E la condanna del tribunale non sostituisce certo la necessità di cambiare le regole.

 

 

I più letti

avatar-icon

Stefano Cingolani

Stefano Cingolani, nasce l'8/12/1949 a Recanati e il borgo selvaggio lo segna per il resto della vita. Emigra a Roma dove studia filosofia ed economia, finendo a fare il giornalista. Esordisce nella stampa comunista, un lungo periodo all'Unità, poi entra nella stampa dei padroni. Al Mondo e al Corriere della Sera per sedici lunghi anni: Milano, New York, capo redattore esteri, corrispondente a Parigi dove fa in tempo a celebrare le magnifiche sorti e progressive dell'anno Duemila.

Con il passaggio del secolo, avendo già cambiato moglie, non gli resta che cambiare lavoro. Si lancia così in avventure senza rete; l'ultima delle quali al Riformista. Collabora regolarmente a Panorama, poi arriva Giuliano Ferrara e comincia la quarta vita professionale con il Foglio. A parte il lavoro, c'è la scrittura. Così, aggiunge ai primi due libri pubblicati ("Le grandi famiglie del capitalismo italiano", nel 1991 e "Guerre di mercato" nel 2001 sempre con Laterza) anche "Bolle, balle e sfere di cristallo" (Bompiani, 2011). Mentre si consuma per un volumetto sulla Fiat (poteva mancare?), arrivano Facebook, @scingolo su Twitter, il blog www.cingolo.it dove ospita opinioni fresche, articoli conservati, analisi ponderate e studi laboriosi, foto, grafici, piaceri e dispiaceri. E non è finita qui.

Read More