Perché i mercati non festeggiano la Merkel III
Economia

Perché i mercati non festeggiano la Merkel III

Tutto è andato secondo le previsioni a Berlino. No news, ecco perché i mercati non hanno festeggiato e l’euro non s’è mosso. Le vere notizie debbono ancora arrivare e allora sì che si apriranno le danze. Angela Merkel ha vinto, un …Leggi tutto

Tutto è andato secondo le previsioni a Berlino. No news, ecco perché i mercati non hanno festeggiato e l’euro non s’è mosso. Le vere notizie debbono ancora arrivare e allora sì che si apriranno le danze. Angela Merkel ha vinto, un successo personale e della sua politica. Die Mutti, la mamma astuta e rassicurante, ha consentito alla Germania di attraversare la grande crisi dal 2008 in poi senza perdere potenza economica e benessere. A pagare un prezzo salato sono stati i lavoratori salariati a più bassa qualifica, ma loro votano per lo più a sinistra e hanno penalizzato la Spd e la Linke per non averli difesi. Angie ha ottenuto il terzo mandato per se stessa, ma non un chiaro mandato per un governo. Anche questo, in fondo, era scontato. Il boccale di birra, insomma, è mezzo pieno. Le decisioni rinviate in attesa del voto, adesso vanno prese.

In agenda  ci sono, innanzitutto, le trattative per la nuova coalizione, Grosse con la Spd o Kleine con i Verdi. Passaggio chiave è il patto solenne che viene firmato prima di varare il governo e che definisce le linee generali del programma. Ci vorrà tempo; intanto l’alta corte di Karlsruhe emetterà la sentenza (rinviata per opportunità politica) sul programma di acquisto dei titoli sovrani da parte delle Bce (Outright Monetary Transactions). Se i giudici rossotogati decideranno che le Omt violano la costituzione tedesca, è facile prevedere lo sconquasso sui mercati finanziari, l’euro tornerà sott’attacco e Mario Draghi si troverà senza munizioni.

Anche se la sentenza fosse mite o favorevole, il caso sollevato spingerà di per sé il nuovo governo ad affrontare in modo sistematico la questione della moneta unica, delle sue articolazioni, a cominciare dalla banca centrale. Molto probabilmente, al consiglio europeo di fine anno la Germania presenterà una proposta di riforma dei trattati che prevede una maggiore centralizzazione delle politiche fiscali, affidate al controllo di un ministro dell’economia. Il che comporta un’ulteriore limitazione degli spazi di manovra per i governi nazionali in generale,e  in particolare per quelli dei paesi altamente indebitati. Soprattutto in mancanza di una vera reciprocità.

Nel frattempo, arriva il nuovo salvataggio della Grecia che, con un debito di 300 milioni di euro per due terzi nelle mani di investitoti e banche internazionali (compresa la Bce), dovrà per forza di cose ingoiare clausole alla Cipro. Un bail-in per il bail-out. Fuori dalle formule, significa che il salvataggio sarà pagato questa volta non solo dai contribuenti, ma dai risparmiatori e dai depositanti, in aggiunta a nuove dosi di austerità. Auspici nefasti? Forse, ma in questa direzione porta il dibattito che si è aperto nelle settimane scorse. Soprattutto, rispecchia lo stato d’animo degli elettori tedeschi: l’euro ci sta bene, ma alle nostre condizioni; chi ha fatto i cocci li ripari; non sta a noi pagare se non il biglietto (più basso possibile) per far parte del club.

Ancor più che la Grecia, sarà l’Italia a turbare i sogni della Merkel III. Un tetto al deficit pubblico sfondato per un decimale, di per sé non è nulla, ma conta il valore simbolico, il messaggio, sempre quello: gli italiani promettono e non mantengono, i loro sacrifici sono solo di facciata. Il governo Letta perde così ogni capacità contrattuale. Come convincere, in queste condizioni, Berlino e Bruxelles a lasciarci un po’ di tempo per digerire le amare pillole? Con un ministro del Tesoro sull’orlo di una crisi di nervi, un partito della coalizione (Forza Italia ex Pdl) che minaccia a ogni pie’ sospinto di “staccare la spina”, e l’altro partito, il Pd, che pensa a regolare i conti interni tra le varie correnti, diventa impossibile presentare un programma di riforme a fronte del quale chiedere quel che è stato graziosamente offerto ad altri paesi che hanno un debito migliore (anche se in continuo aumento), ma un deficit decisamente peggiore. Se poi la Federal Reserve comincia davvero a stringere o se i tassi di mercato aumentano in previsione della exit strategy, allora lo spread ricomincerà a saltare e nemmeno questa volta sarà una tarantella.

 

 

 

 

 

 

 

 

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Stefano Cingolani

Stefano Cingolani, nasce l'8/12/1949 a Recanati e il borgo selvaggio lo segna per il resto della vita. Emigra a Roma dove studia filosofia ed economia, finendo a fare il giornalista. Esordisce nella stampa comunista, un lungo periodo all'Unità, poi entra nella stampa dei padroni. Al Mondo e al Corriere della Sera per sedici lunghi anni: Milano, New York, capo redattore esteri, corrispondente a Parigi dove fa in tempo a celebrare le magnifiche sorti e progressive dell'anno Duemila.

Con il passaggio del secolo, avendo già cambiato moglie, non gli resta che cambiare lavoro. Si lancia così in avventure senza rete; l'ultima delle quali al Riformista. Collabora regolarmente a Panorama, poi arriva Giuliano Ferrara e comincia la quarta vita professionale con il Foglio. A parte il lavoro, c'è la scrittura. Così, aggiunge ai primi due libri pubblicati ("Le grandi famiglie del capitalismo italiano", nel 1991 e "Guerre di mercato" nel 2001 sempre con Laterza) anche "Bolle, balle e sfere di cristallo" (Bompiani, 2011). Mentre si consuma per un volumetto sulla Fiat (poteva mancare?), arrivano Facebook, @scingolo su Twitter, il blog www.cingolo.it dove ospita opinioni fresche, articoli conservati, analisi ponderate e studi laboriosi, foto, grafici, piaceri e dispiaceri. E non è finita qui.

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