Monti e Merkel, perché ha ragione il Financial Times
Economia

Monti e Merkel, perché ha ragione il Financial Times

E’ il titolo che fa notizia (quando si tratta di opinioni, perché altrimenti dovrebbe essere il contrario). E anche questa volta il Financial Times ha azzeccato il titolo: “Monti non è l’uomo giusto per guidare l’Italia”. Nell’articolo, Wolfgang Münchau, già …Leggi tutto

E’ il titolo che fa notizia (quando si tratta di opinioni, perché altrimenti dovrebbe essere il contrario). E anche questa volta il Financial Times ha azzeccato il titolo: “Monti non è l’uomo giusto per guidare l’Italia”. Nell’articolo, Wolfgang Münchau, già capo della edizione tedesca e ora uno dei più autorevoli analisti di cose europee, espone con grande efficacia le sue ragioni. Ma il vero colpo basso si trova in mezzo al pezzo, esattamente al terzo capoverso. Perché Münchau rimprovera a Monti di non ave fatto abbastanza in Europa.

Certo, il governo dei tecnici ha aumentato troppo le tasse in Italia e non ha tagliato abbastanza alle spese. Non ha realizzato le riforme necessarie per rendere il paese più competitivo. E la riduzione dello spread è opera di un altro Mario, il Draghi che sta a Francoforte. Ma la debolezza maggiore riguarda proprio il cavallo di battaglia di Monti, anzi la sua stessa raison d’etre: l’Unione europea. L’abbiamo detto anche su questo blog agenda-monti-che-delusione-sull’europaPerché?

L’Italia, come tutti gli altri paesi deboli dell’eurozona, ha solo tre opzioni, scrive Münchau: 1) stare nell’euro e assumersi tutto l’onere dell’aggiustamento, non solo quello fiscale, ma anche il costo del lavoro e l’inflazione; 2) stare nell’euro zona ma con un aggiustamento condiviso tra creditori e debitori; 3) lasciare l’euro. L’Italia ha cercato di seguire una quarta via, stare nell’euro, aggiustare i conti nel breve periodo e vedere che succede. Questo riguarda i tecnici, ma anche il precedente governo Berlusconi. La soluzione migliore è la seconda e Monti sembrava l’uomo giusto, vista la sua credibilità europea e la sua conoscenza dei meccanismi e dei processi decisionali della Ue. Invece, così non è successo. Non ha messo Angela Merkel di fronte a una chiara alternativa: o un aggiustamento simmetrico oppure l’Italia esce dall’euro.

Il rimprovero è eccessivo? Era realistico un tale aut aut? E cosa vuol dire aggiustamento simmetrico? Cominciamo da qui. Vuol dire favorire il risanamento della finanza pubblica e le riforme nel mercato del lavoro nei paesi in difficoltà, offrendo sbocco alle loro merci attraverso un aumento della domanda interna tedesca (che invece oggi è vicino a zero); e vuol dire disponibilità a comprare buoni del tesoro e a condividere il fardello con l’emissione di titoli comuni (eurobond o qualcosa del genere) nel momento in cui viene rispettato il fiscal compact. Tutto questo, invece, non passa nemmeno per l’anticamera non solo della Kanzlerin, ma di nessun politico tedesco (escluso Joschka Fischer che però ha lasciato la politica attiva). E’ vero, Monti ha più volte perorato gli eurobond, e anche la proposta di trasformare il meccanismo salva stati in una banca vera e propria. Tuttavia ha ingoiato amaramente i “Nein, nein, nein” di Frau Angela. 

Poteva fare altrimenti? Era ragionevole minacciare l’abbandono dell’euro? Nessuno lo ha fatto finché era al governo. Ed era davvero possibile uscirne senza provocare una catastrofe mondiale? Non lo era. E qui il commentatore tedesco ha torto. Un atto unilaterale della sola Italia sarebbe stato una disastrosa avventura. Ben diverso se si fosse costruito un consenso con i paesi del sud e con una Francia meno “renana”, sostenuto da una sponda atlantica che dalle isole britanniche arriva fino al Nord America (non dimentichiamo le pressioni di Obama sulla Merkel e i dollari girati alla Bce per salvare le banche europee, chi crede che Draghi abbia fatto tutto da solo non sa come funzionano certe cose). Insomma, ci voleva un piano B.

Utopia da salotto? Geopolitica da uffici studi? Forse, anche se la Merkel ha perso 13 elezioni di seguito (l’ultima, domenica scorsa, in Bassa Sassonia) e ormai viene fuori anche la polvere economica che il governo ha messo sotto il tappeto. Dunque, voci amiche si potevano levare persino in Germania. Ma la vera domanda è: qualcuno ci ha almeno provato?

 

 

 

 

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Stefano Cingolani

Stefano Cingolani, nasce l'8/12/1949 a Recanati e il borgo selvaggio lo segna per il resto della vita. Emigra a Roma dove studia filosofia ed economia, finendo a fare il giornalista. Esordisce nella stampa comunista, un lungo periodo all'Unità, poi entra nella stampa dei padroni. Al Mondo e al Corriere della Sera per sedici lunghi anni: Milano, New York, capo redattore esteri, corrispondente a Parigi dove fa in tempo a celebrare le magnifiche sorti e progressive dell'anno Duemila.

Con il passaggio del secolo, avendo già cambiato moglie, non gli resta che cambiare lavoro. Si lancia così in avventure senza rete; l'ultima delle quali al Riformista. Collabora regolarmente a Panorama, poi arriva Giuliano Ferrara e comincia la quarta vita professionale con il Foglio. A parte il lavoro, c'è la scrittura. Così, aggiunge ai primi due libri pubblicati ("Le grandi famiglie del capitalismo italiano", nel 1991 e "Guerre di mercato" nel 2001 sempre con Laterza) anche "Bolle, balle e sfere di cristallo" (Bompiani, 2011). Mentre si consuma per un volumetto sulla Fiat (poteva mancare?), arrivano Facebook, @scingolo su Twitter, il blog www.cingolo.it dove ospita opinioni fresche, articoli conservati, analisi ponderate e studi laboriosi, foto, grafici, piaceri e dispiaceri. E non è finita qui.

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