Rcs-Fiat, la partita difficile di John Elkann
Economia

Rcs-Fiat, la partita difficile di John Elkann

Il presidente del Lingotto ha deciso di investire pesantemente nel gruppo del Corriere della Sera. Ma deve vedersela con la crisi, le banche e Diego Della Valle

Il 20 per cento della Rizzoli-Corriere della Sera (Rcs) resta in Fiat: non passerà in Exor, la ricca finanziaria della famiglia Agnelli dove sarebbe stato molto più logico che finisse. Resta in Fiat, per volere del presidente John Elkann e col permesso dell’amministratore delegato totipotente Sergio Marchionne. Cosa c’entri l’editoria con le automobili è incomprensibile, ma è un mistero che si protrae da oltre un secolo, non cambierà nulla se proseguirà per qualche altro annetto, e sicuramente la famiglia Agnelli è stata un editore meglio di tanti altri, ed ha meriti storici nell’aver - se non altro - permesso il prosperare di tanto buon giornalismo.

Ma il rafforzarsi di Fiat in Rcs comporterà anche una serie di conseguenze industriali: fusioni con altri giornali, verosimilmente, come accade in tutti i settori in crisi; e un avvicendamento di soci in compagnia, altrettanto probabilmente. Queste almeno sarebbero le intenzioni del longilineo e ridente giovane capo della famiglia Agnelli. Non Murdoch: Elkann l’ha smentito. Ma altri soci, sì. E probabilmente stranieri, perché in fondo, dal cognome in giù, Jaki è più straniero che italiano.

Intanto, sul mercato, si parla con insistenza di possibili triangolazioni tra il Corriere della Sera, La Stampa (che già appartiene alla Fiat) e il Secolo XIX, con cui La Stampa aveva più volte studiato la fusione. Ma sono tutte chiacchiere, per ora: certo è che razionalizzare i centri stampa (sono troppi, in Italia) e concentrare le redazioni tagliando posti è la tendenza irreversibile dell’editoria cartacea quotidiana in tutto il mondo. E qualcosa del genere in Italia prima o poi accadrà: sotto l’egida della Fiat? Pare di sì: e non a caso Eugenio Scalfari, il decano dei giornalisti italiani, nonché il primo a essersi reso editore di se stesso (salvo poi, purtroppo ma comprensibilmente abdicare) ha puntato il dito contro il rischio-trust che si profilerebbe in quest’operazione se andasse appunto in porto una maxi-concentrazione nell’informazione quotidiana cartacea.

Peraltro gli editori guardano al governo, dove si sta studiando il rifinanziamento della legge 416 sui prepensionamenti, per permettere appunto alle case editrici massacrate dalla crisi della pubblicità e dall’emorragia di lettori verso Internet di alleggerirsi di costi fissi.

E dunque John Elkann, rastrellando per una manciata di milioni i diritti che gli servivano per salire al 20%, ha messo lo stivalone della sua potenza finanziaria nel piatto di una società che, in occasione dell’aumento di capitale in corso, ha visto uscire soci sindacati (come Pesenti) e non sindacati, come Benetton e il povero Rotelli. Ma Elkann sa benissimo che adesso questa leadership gli costerà, e molto: perché questi 400 milioni bastano sì e no alla Rcs per arrivare a fino anno, ma presto ne serviranno altrettanti.

E servirà comunque il consenso della banche, per sostenere la ripresa. Per questo Elkann si è scontrato con la linea di Diego Della Valle, altro socio forte ma oggi isolato in Rcs, che avrebbe preferito che l’azienda chiedesse il concordato, per tagliare le unghie alle banche creditrici. Peccato che queste siano anche azioniste, dicono i sostenitori di Torino, e siano praticamente tutte le banche che agiscono nell’asfittico mercato creditizio italiano. Per cui litigarci non è igienico per nessuna azienda.

Come reagirà, ora, Della Valle, che più volte negli ultimi mesi ha sparato bordate criticissime contro Elkann? Che farà? Probabilmente, un bel nulla: il Corriere è un lusso che costa tanto, ed è vero che Della Valle è ricco, ma non quanto la Fiat. A meno di non coalizzare attorno a sé altri soci danarosi. Ma perché un tipo danaroso deve mettere soldi nell’editoria proprio oggi? Non vale la pena aspettare per capirne di più?

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Sergio Luciano