Aziende, chi delocalizza e chi no
ANSA/ALBERTO LANCIA
Economia

Aziende, chi delocalizza e chi no

Da Mediaset alle griffe della moda. Le imprese che portano all’estero o riportano in Italia le loro produzioni

Lo studio è già pronto e la scenografia è uguale. Ma c’è una differenza: invece di essere a Cologno Monzese (Mi), nella sede storica di Mediaset, le strutture si trovano a migliaia di chilometri di distanza, a  Varsavia. Sono le location in cui verrà registrato Chi vuol essere milionario, il celebre telequiz condotto in Italia da Gerry Scotti. Il popolare presentatore tv ha preso armi e bagagli per partire alla volta della Polonia e realizzare lì uno speciale di 4 puntate che celebra il ventennale della trasmissione, prodotta in tutto il mondo in diverse lingue e versioni. 

Già, perché a uscire dall’Italia oggi non sono soltanto le fabbriche di qualche multinazionale dell’industria. A far rotta verso l’estero sono anche le produzioni della tv, visto che in Polonia tutto costa meno, dai cameramen alle maestranze. Gli economisti le chiamano delocalizzazioni e sono un fenomeno con cui i paesi i avanzati devono fare i conti da decenni. Si tratta appunto di spostamenti di produzioni industriali dalla madrepatria verso altre nazioni un po’ meno ricche, dove gli stipendi sono più bassi.

Via dall'Italia

A parte l’episodio di Mediaset, in altri settori c’è una lunga sfilza di aziende che hanno deciso di trasferire altrove le proprie fabbriche. Lo sanno bene i dipendenti dello stabilimento di Guardamiglio (Lo) della Nilfisk, multinazionale degli elettrodomestici e delle apparecchiature per le pulizie, che ha avviato la procedura di licenziamento collettivo per 97 persone. L’obiettivo è ridurre gli organici, con l’intenzione di spostare in altri luoghi la produzione di macchinari per lavare le strade. 

Non vanno meglio le cose nelle fabbriche di San Martino sulla Marruccina (Ch) della Balls Beverages, multinazionale che produce lattine per bibite. Anche lì sono in programma licenziamenti dopo che il top management ha deciso di portare alcune produzioni in Serbia. A nord come a sud, insomma, il fenomeno delle delocalizzazioni rischia di mietere un bel po’ di posti di lavoro. Ma quante sono le aziende italiane o le multinazionali che ogni anno decidono di prendere armi e bagagli per spostare oltreconfine le loro fabbriche? 

Di dati precisi non ce ne sono. Mesi fa ha provato a fare una stima la Cgia, la confederazione degli artigiani di Mestre. Tra i 2009 e il 2015, secondo la Cgia, le partecipazioni estere di aziende italiane sono cresciute del 12,5%. Spesso, più che di delocalizzazioni per risparmiare sul costo del lavoro, si tratta di  salutari e auspicabili investimenti al'estero, visto con una meta di destinazione in qualche paese industriale avanzato. Più di 3.300 sono infatti le partecipazioni detenute da imprese tricolori negli Stati Uniti, seguite da quelle in Francia (2.551), in Spagna (2.251) e in Germania (2.228).  Ci sono però molte partecipazioni di società italianne in nazioni come la Romania (2.353) e la Cina (1.698), dove il costo del lavoro costa meno e che sono stati scelti probabilmente solo per risparmiare sul personale. 

Ritorno in patria

Non va dimenticato, però, che negli ultimi anni è nato anche un fenomeno opposto alle delocalizzazioni. Si chiama back reshoring e consiste nel riportare nella madrepatria le produzione trasferite all’estero negli anni precedenti. E’ una tendenza che si riscontra soprattutto tra le grandi aziende della moda, che nella Penisola trovano molte tradizioni e capacità manifatturiere che nei paesi emergenti sono merce rara. Un report su questo fenomeno  che si intitola European Monitor of Reshoring (realizzato dalle università di Udine, Bologna, L’Aquila e Catania) ha calcolato 165 casi di aziende europee (tra cui 32 italiane) che hanno riportato a casa le loro produzioni tra il 2014 e il 2017. Tra queste ci sono molte griffe della moda o del tessile come Benetton, Bottega Veneta, Fitwell, Geox, Safilo, Piquadro, Wayel, Beghelli, Giesse e Argotractors. Il made in Italy, insomma, conserva una certa forza. 

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Andrea Telara

Sono nato a Carrara, la città dei marmi, nell'ormai “lontano”1974. Sono giornalista professionista dal 2003 e collaboro con diverse testate nazionali, tra cui Panorama.it. Mi sono sempre occupato di economia, finanza, lavoro, pensioni, risparmio e di tutto ciò che ha a che fare col “vile” denaro.

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