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Economia

Antinori: bere bene, bere meglio

Mentre esce un libro sul Tignanello, il marchese del vino si racconta. Demolisce facili mode e scommette sulla qualità

Non dovrebbe raccontare ricordi di guerra Piero Antinori, perché, insieme all’uva, il tempo deve aver pigiato anche gli anni rendendoli compatti e scartandone almeno una quindicina. Fisico asciutto, occhi di chi ha ancora molto da dire, ha 77 anni e nel 2016 festeggerà le nozze d’oro con la sua azienda, la Marchesi Antinori Spa, tra i nomi più famosi al mondo per i cultori del buon bere: 1.700 ettari di vigneti, 20 milioni di bottiglie l’anno, una ventina di etichette fra le quali alcune mitiche come Tignanello e Solaia. Aveva 28 anni quando si mise alla guida dell’azienda di famiglia.

Famiglia blasonata, che sotto lo stemma porta la scritta latina “Te duce proficuo: nel tuo nome cresco, miglioro”. Piero Antinori ha interpretato al meglio il motto, lo ha onorato con la sua nobiltà non oziosa e con l’aristocrazia dell’essere. E mentre gli si parla, in una sala di Palazzo Antinori a Firenze, vengono alla mente libri come La donna giusta di Sándor Márai o I Buddenbrook di Thomas Mann: là l’alta borghesia portattrice di codici, valori, estetica, qui la meglio nobiltà italiana. “Noi si viveva in Chianti, eravamo sfollati lì. Ho ricordi intensi dei miei anni in campagna ai tempi della guerra. Le urla dei contadini che incitavano i buoi. Le nebbioline autunnali. I fichi messi a seccare. L’uccisione del maiale. La vendemmia. La ruzzola, che oggi non si sa neppure cosa sia: un cilindro di legno che si doveva far correre il più possibile, un gioco in cui ero bravino. C’erano riti che scandivano il tempo”.


Ha fama di uomo molto riservato. Però, in un suo libro di qualche stagione fa, Il profumo del Chianti, si è lasciato andare a confessioni.

Ognuno dovrebbe fare il suo mestiere, ma furono tante e tali le insistenze delle mie figlie e della Mondadori che alla fine mi sono fatto convincere. All’inizio ho faticato a scrivere, ma andando avanti con i capitoli, i ricordi sono affiorati da soli, ripescati da chissà dove. E mi è piaciuto lasciare un po’ di memoria, soprattutto ai miei nipoti.

Sei nipoti, dai 23 anni a un mese: che cosa erediteranno da lei, di immateriale?

Vogliamo usare due termini desueti? Responsabilità e consapevolezza.

Cioè?

Se si troveranno loro a gestire l’azienda, è importante che sappiano che non è sempre stata così: ci sono stati rischi, sudore, momenti difficili. Ci sono voluti fatica, perseveranza, passione. Nulla è servito sul piatto d’argento.

Il momento più difficile?

L’inizio. Quando mio padre mi mise a capo dell’azienda. Evidentemente aveva capito la mia passione per il vino, non mi spinse ad accettare, lo propose e basta. Mi aveva trasmesso l’amore per questo mestiere, ma la situazione di allora era davvero complicata.

Perché?

Stava finendo la mezzadria. I proprietari si trovarono a gestire direttamente i propri terreni e dovevano decidere che cosa farne. Altre famiglie vendettero, noi cercammo di creare un’impresa. Non solo: la qualità del vino era in discesa, perché bere un rosso faceva parte dell’alimentazione contadina.

Quando capì di averla “sfangata”?

Alla fine degli anni ’70, quando mi sono reso conto che la qualità premiava. Stava iniziando un nuovo capitolo della storia vinicola italiana.

Che battezzaste con il Tignanello, il re dei rossi, un archetipo dei viticultori. Era il 1971.

Per me il Tignanello ha un significato particolare, perché segna una svolta. È una pietra miliare. La fine di un’epoca.

In questi giorni è uscito il libro, firmato da lei, che ne ripercorre genesi e fasti, Tignanello.1971.Una storia italiana di Cinquesensi editore.

Prima del ’70, si beveva senza la cultura del bere. L’immagine del made in Italy era spaghetti, fiasco, mandolino. Occorreva una svolta: scommettere sulla qualità. E mentre noi, insieme ad altri, lo facevamo, cambiava anche il consumatore.

In meglio. Com’è quello di oggi?

Invece della quantità, chiede la qualità. Vuole capire, conoscere. Sapere la storia di un’etichetta.

Per questo nel 2012 avete inaugurato la Cantina di Bargino: oltre 100 milioni di investimento, architettura avveniristica. Una cattedrale-design del vino in Valdipesa.

Vengono a visitarla da Cina, Stati Uniti, India, Brasile. È la forma di comunicazione più efficace per dire chi siamo: storia e innovazione, passato e ricerca, terra e pensiero. Senza che noi promuovessimo nulla, ci siamo trovati ad avere 40-50 mila visitatori l’anno. Vengono per capire cosa c’è dietro una bottiglia.

Lei sostiene che per fare un buon vino ci vogliono una vigna e un’idea. È così?

La localizzazione specifica di un vigneto fa la differenza, magari ce ne è un altro a poche centinaia di metri e dà un vino molto diverso. Basta poco, una leggera diversa esposizione al sole, la terra... È il mistero, e il fascino, di questo lavoro. Bisogna però anche venderlo il nuovo vino: diciamo che la combinazione dei tre elementi - vigna, idea, mercato - riesce una volta su dieci.

Non si direbbe dai vostri numeri.

Nel ’66 quando ho preso in mano l’azienda, il 70 per cento era rappresentato dal mercato interno. Ora ci avviciniamo
a un ribaltamento delle quote.

Chi compra?

Stati Uniti, Canada, l’Europa e ora anche l’Asia. Poco alla volta però: ci vorranno ancora alcune stagioni prima che la Cina scopra il vino italiano. Ci sono i francesi...

Saremo sempre eterni secondi?

È un problema di immagine Italia. Se vince la Ferrari si vende più vino; se moda e design si affermano, lo stesso. La gastronomia e la ristorazione italiana stanno aiutando molto. Per fortuna, il made in Italy ora è un valore aggiunto.

Allora perché il Paese arranca?

Abbiamo un grande potenziale, ma siamo indietro con infrastrutture, ricerca, scuola. La burocrazia frena, lacci e lacciuoli tengono lontani anche possibili nuovi investimenti. Per avere un’autorizzazione ci vogliono mesi. E l’incertezza del diritto è pesante: una sentenza dipende da come si sveglia il giudice la mattina.

Ha mai pensato alla politica?

Me l’hanno proposta più di una volta,
ma torniamo al discorso di prima: ognuno deve fare il mestiere che sa.

Fa comodo avere Matteo Renzi, ex sindaco di Firenze, presidente del Consiglio?

Un occhio di riguardo lo deve avere per forza: è la sua città.

Ce la farà a cambiare l’Italia, come dice?

Mi sembra che ci stia provando. Il Paese ha bisogno di essere modernizzato. Tengo le dita incrociate. Se solo ognuno smettesse di pensare esclusivamente al proprio interesse…

"Non è complicato fare vini intensi e saporiti sotto il sole d’Italia. Difficile è trovare un’eleganza che non abbia bisogno di fare la voce grossa": una sua frase.

Anche il vino necessita di una sua armonia. Per fortuna, è finita la moda dei vini molto alcolici, fruttati, barricati. Ora si cerca personalità ed eleganza.

Niente voce grossa neppure nella vita?

Sì, non serve.

E niente mode effimere?

C’è stato il tempo in cui il rosso era considerato l’unico vino serio. Poi sono arrivati i barricati. I molto alcolici e corposi. Il vino rosso freddo. Il rosé. È un continuo...

La prossima?

Vini non troppo alcolici, con intensità, complessità di sapore e struttura.

Un bilancio, alla vigilia delle nozze d’oro con l’azienda?

Prima di tutto ho avuto fortuna a trovarmi a operare in un momento particolare della storia del vino. Un Rinascimento. La Rivoluzione. Ho lavorato molto però. Mi sono anche divertito, ho avuto soddisfazioni e ho dedicato la maggior parte del mio tempo al vino, ma con passione.

Due anni fa ha istituito un trust. Perché?

Per rafforzare il legame fra la famiglia e l’azienda e mettere al riparo da eventuali future liti. Per 100 anni proprietaria è la fondazione, la famiglia sarà solo beneficiaria.

Decisione coraggiosa. E le figlie che cosa hanno detto?

Il trust è un’istituzione anglosassone. Da noi, viene poco applicata. Beh, le mie figlie... Per loro è stato difficile accettare l’idea, ma credo che ora siano convinte della scelta.

Rimpianti?

Qualche viaggio. Non aver visto, per esempio, le montagne dell’Himalaya, straordinario spettacolo naturale.

Le sue tre figlie hanno la sua stessa passione?

Ho insegnato loro a sentirsi custodi più che proprietarie.

Come ha ricordato a tutti noi Papa Francesco, per il creato... Insomma, le sue figlie sono appassionate sì o no?

Forse è un po’difficile esserlo quanto lo sono io.

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