Dove non ho mai abitato: emozione d’amore al cinema – La recensione
Il dramma sentimentale intenso e romantico di Paolo Franchi con Emmanuelle Devos e Fabrizio Gifuni. Struggimenti e scelte dolorose fra istinto e ragione
Saranno le fluorescenze notturne della città o le emozioni croccanti di un ritorno nella casa paterna dopo vent’anni di matrimonio parigino. Sarà la sospensione incantata di una villa sul lago. Sarà l’imprevista dolcezza d’un uomo nuovo col quale condividere la vocazione dell’architettura. Chissà. Forse tutte queste cose insieme. Ma di certo quando Francesca (Emmanuelle Devos) torna a Torino per il compleanno del padre esplora un altro mondo, conosciuto nell’infanzia e adesso dimenticato.
Dall’approccio diffidente all’innamoramento
Dove non ho mai abitato di Paolo Franchi (in sala dal 12 ottobre, durata 98’) la segue e la trascina in una dimensione di tempo ritrovato che magari non avrà aromi proustiani ma di sicuro affascina, conquista, rapisce. Specie quando, complice un malanno del papà Manfredi che è un sontuoso Giulio Brogi e la costringe a prolungare il soggiorno torinese, conosce e s’innamora – ricambiatissima – di Massimo (Fabrizio Gifuni), al quale il padre, architetto di fama internazionale, ha affidato la continuità del suo studio. Piccoli passi sentimentali, all’inizio, in un gioco di sguardi e sensazioni che incomincia a flottare attorno a loro dopo aver vinto un approccio diffidente.
Poi l’attrazione. Che si fa più impetuosa, infine non resistibile e a suo modo inesorabile tra irrequietezza ed eccitazione. C’est la vie. Lo sa Francesca, che arriva da Parigi e vi ha sposato ormai da lungo tempo Benoît (Hippolyte Girardot), finanziere importante e nobilmente protettivo, dal quale ha avuto una figlia ora già grande a completare il quadro di un ménage familiare intoccabile.
Da Parigi a Torino: ecco marito e figlia
Eppure accade. Che Manfredi muoia e che Francesca, già impegnata per volere paterno a completare un progetto residenziale accanto a Massimo - anche lui “impegnato”: con la sua compagna Sandra (Isabella Briganti) - sia costretta a prorogare ulteriormente il suo soggiorno torinese, con ogni immaginabile conseguenza; anche se la morte del padre e la prolungata assenza da Parigi non innescano solo le nuove passioni della donna ma anche la voglia di Benoît e di sua figlia di recuperare, rispettivamente, una moglie e una madre. Cosa che, chiaramente, intendono fare arrivando a Torino: prima per il funerale, poi per riportarsela a casa. Mettendola di fronte ad una scelta lacerante.
Arriva il conflitto fra impulso e disciplina
Amore perduto, ancestrale, all’apparenza impossibile ma nella sostanza plausibile e ben praticabile. Solo che, come si dice, lo si voglia davvero. E il conflitto fra istinto e ragione, impulso e disciplina guida Francesca alla sua decisione che impone, comunque una rinuncia dolorosa. All’interno di un dramma sentimentale pulsante e coinvolgente, che coi suoi struggimenti sa di cinema antico, così romantico, ovattato, chic in tutto a partire dalla figura flottante di Emmanuelle Devos, dalla sua voce flautata, dalla sua espressività intensa ed elegante, da quel suo charme cha pare innato ma è pure ben costruito e plasmato nell’arte del dire e dell’apparire.
Film di classe, dai dialoghi alle musiche
Del resto Gifuni non le è da meno, pacato, sobrio, vellutato, anch’egli simbolo e modello di una recitazione impostata dalla regìa su uno standard vicino alla perfezione teatrale, fatto osservare all’intero nucleo di attori dove, come detto e pur nella sua transitoria presenza, Brogi domina sovrano. Insomma un film di gran classe. Curato nell’intensità dei dialoghi, attento alla distillazione dei suoi momenti più compiuti e raccolti, seduttivo nelle musiche incombenti e iperpassionali (di Pino Donaggio), cronometrico nel montaggio che privilegia le ellissi narrative saltando sistematicamente i passaggi drammaturgicamente scontati.
Una intrigante matassa di sensazioni
Anche per questo lascia un po’ di sconcerto la scena (lunghetta) di un convegno celebrativo post mortem della fama e del talento di Manfredi: piccola escrescenza in un “troppo detto” e “troppo raccontato” che s’accorda poco con la bella sintetica armonia del resto. E con quell’intrigante matassa di emozioni e sensazioni – anche interiori – che avvolge la protagonista al cospetto del suo stesso passato, in un ritorno nella casa paterna dopo un’assenza troppo lunga e forse colpevole, capace di risvegliare ricordi, perfino di generare col padre un vero rapporto affettivo fino ad allora latitante.