Babilonia
William N. Copley, Capella Sextina. Fotografia di Josh Lefsky
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Yasmina Reza, 'Babilonia' - La recensione

Il ridicolo, il tragico, il grottesco: l'essenza della vita in un romanzo luminoso e beffardo

Alla biblica città dei senza Dio, luogo dell'umana protervia, è intitolato il nuovo romanzo di Yasmina Reza che, in piena coerenza con le claustrofobiche ambientazioni delle sue sceneggiature, si svolge quasi tutto all'interno di un condominio.

La simbologia è sfacciata, ironica, sottile. Nel microcosmo della nostra quotidiana Babilonia ciascuno in fondo vive in mezzo agli altri ma "in esilio da sé stesso". Con magistrale raffinatezza, la scrittrice francese - già ispiratrice del film Carnage di Roman Polanski con Il dio del massacro - mette in scena un'altra variazione sullo psicodramma della famiglia borghese, mischiando farsa e tragedia. 

Sessant'anni, una follia in viaggio verso l'ignoto

Come non sono i grandi tradimenti a provocare la malinconia ma piuttosto le perdite infime, gli sbandamenti improvvisi, così a mandare avanti la vita non sono le grandi idee ma le cose di tutti i giorni. Per esempio una festa di compleanno, quella che Elizabeth organizza nella sua casa alla periferia parigina.

Sessant'anni, un'età "sconfinata e astratta", un'età di bilanci che vengono così, senza volerli, a fare il punto sulle miserie dell'ordinario. Il tempo si restringe all'improvviso mentre si sorprende a riflettere: "non potrei dire che nella mia vita ho saputo essere felice". Eppure ha un marito che la ama, un figlio ormai grande, un lavoro, degli amici.

Elizabeth prepara con cura l'evento insieme al marito Pierre e il primo atto di Babilonia si conclude con le coppie di invitati che se ne vanno dopo una serata di chiacchiere e bevute. La Reza indugia sulle dinamiche della mezza età indirizzando i discorsi sugli stereotipi della modernità, lo shopping e il design, la politica e il cibo, le piccole maldicenze fra amici, in una prosa che deve al teatro l'unità di tempo e luogo ma anche la struttura dialogica e corale, e con momenti di irresistibile humour fra cui un dibattito sulla felicità dei polli da cui scaturirà il movente del secondo atto. 

Ma rispetto ai precedenti romanzi, qui la sceneggiatura della Reza concede alla voce narrante ampie meditazioni fuori campo, come l'accenno ad alcuni concetti che la nostra epoca ha svuotato di senso: tolleranza, memoria, elaborazione del lutto, raccoglimento, permanenza, le stesse idee della sinistra...

Corre sotto traccia una malinconia travestita da disillusione verso ogni ideale e verso l'idea stessa del futuro. Non c'è rimedio alla vita che sfiorisce. Per una donna all'alba dei sessanta le convenzioni sociali pesano come macigni. E ci si aspetta che sopporti con allegria il suo fardello, mentre all'uomo almeno è concesso un po' di spleen.

Una tragedia piccola piccola

Se la tragedia è costantemente in agguato nella banalità della vita, nessuno può sapere se e quando verrà allo scoperto. In Babilonia veste i panni di un "piccolo uomo che vive e muore senza nessuno che se ne accorga": il vicino del piano di sopra, il mansueto Jean-Lino di cui Elizabeth è diventata amica nel modo in cui si diventa amici a volte in età matura, incontrandosi ogni giorno sulle scale e continuando a darsi del lei.

L'allegra festa "destinata all'oblio e all'evanescenza delle infinite sere della vita" diventa pian piano un antidoto alle convenzioni, con la protagonista che vede se stessa allo specchio, agire seguendo un impulso fuori controllo, fuori dall'ansia dell'anticipazione. 

Jean-Lino rappresenta l'essenza dell'uomo qualunque, con due debolezze: la moglie Lydie e il bizzoso gatto Eduardo, che a partire dal nome tradisce le radici italiane del co-protagonista ed è nel contempo l'omaggio della scrittrice al grande maestro del teatro italiano. Lydie era una persona capace di vivere negli sprazzi di luce dell'istante, avresti potuto trovarla in un altro tempo e in un altro luogo, magari un jazz club degli anni Venti.

Forse per questo il legame con Jean-Lino si spezza drammaticamente, mentre la coppia del piano di sotto si ferisce solo superficialmente, come un'anestesia quotidiana. Guardo sempre con sospetto l'amore coniugale, ha spiegato Yasmina Reza, una "cellula artificiale" dove si finisce per riversare il meglio e il peggio di sé. L'amicizia invece ha un tratto disinteressato e puro, forse durevole.     

La normalità e le sue sfumature

E di nuovo, come nel precedente capolavoro Felici i felici, verrà da chiederci cosa avremmo fatto al posto degli attori di questa commedia e forse ci sembrerà di assomigliare a qualcuno di loro. Ci chiederemo se avremmo nostro malgrado potuto essere coinvolti (attratti?) in un delitto, oppure se avremmo finito per cedere al sonno (avevamo pur bevuto troppo) perfino di fronte a un cadavere. In tutti i casi si finirà un po' turbati.

Giusto e sbagliato, innocenza e colpevolezza sono concetti ben poco limpidi nella psicologia umana e perfino nella giurisprudenza, dove il grigio è sempre il colore dominante. La verità è difficile da raggiungere ma, confessa la Reza, per uno scrittore è proprio questo l'interessante.

"Il mondo non è affatto ordinato. È un casino. Io non cerco mai di metterlo a posto". La citazione del fotografo Garry Winogrand (anche la fotografia ha un suo spazio importante in questo libro) è il manifesto di Babilonia. Non c'è saggezza nel processo creativo dell'artista o dello scrittore ma una momentanea chiaroveggenza gli permette di riconoscere i tratti di quella misteriosa follia che chiamiamo normalità. La scintilla persiste per un attimo anche durante la lettura. Poi si torna, come ogni giorno, ad affannarsi per trovare un senso nelle cose del mondo, cioè a cercare di eludere il nulla. 

Per approfondire

Felici i felici - La recensione
Dag Solstad, Romanzo 11, Libro 18 - La recensione

Yasmina Reza
Babilonia
Adelphi
157 pp., 17 euro

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Michele Lauro