Pietre, viscere, rovine
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Pietre, viscere, rovine

A meno di non essere un personaggio di Garcìa Màrquez, o di non soffrire altra condizione disagevole, nessuno di noi mangia sassi. Pare sia proprio una patologia che si chiama picacismo, non mi ricordo se mentale o legata a …Leggi tutto

A meno di non essere un personaggio di Garcìa Màrquez, o di non soffrire altra condizione disagevole, nessuno di noi mangia sassi.

Pare sia proprio una patologia che si chiama picacismo, non mi ricordo se mentale o legata a qualche carenza organica o entrambe le cose. Ci sono persone a cui deve essere nascosta la vista della roccia nuda, che vivono una vita di linoleum, capaci come sono di staccare i calcinacci dai muri, suppongo non solo quelli di casa propria, e non solo quelli di case, ma anche di monumenti, fontane, statue, ponti, panchine, chiese, rovine. Perché lo fanno? È complicato.

A parte che sono sicura che ciascuno di noi ha desiderato, in un certo momento della propria vita, mangiare pietra, vetro, legno o altre sostanze (pare che verso i 5 anni io andassi pazza per il polistirolo), trovo la pratica affascinante e eroica. Qualcosa a metà tra il vampirismo minerale e una forma organica di resistenza politica ai disegni del Creatore: «O ti guadagni i frutti del mio giardino, Uomo, o finirai col mangiar pietre!» «Ok, fammi due etti di tormalina».

Conosco gente di tutto rispetto che pur senza arrivare a mangiarle ha nutrito per tutta la vita una fascinazione potentissima per le pietre. Non parlo solo di studiosi, compilatori di tassonomie, collezionatori, o indagatori dell’alfabeto dell’universo (Aristotele, Teofrasto, Plinio il Vecchio, Hildegard von Bingen, Marbodo di Rennes possedevano sterminati lapidari), ma di appassionati della pietra come oggetto di una specie di mistica materiale, non religiosa, senza chiese, dogmi, anche senza divinità, con un intento più disperato che filosofico.

Caillois ha dedicato a questa passione un saggio-poema bellissimo, diagonale

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nel senso che usa i linguaggi di discipline diverse per fare un elogio lirico della loro aridità.

Ma cosa abbiamo a che fare noi con le pietre? Abbandonata la bislacca idea che dietro la Natura ci sia un disegno, e affidato tutto al cieco caso, non è forzata l’ipotesi che le pietre possano dirci qualcosa, attraverso la semplice somiglianza tra alcuni aspetti della loro inorganicità e la nostra natura, il nostro corpo, le nostre azioni, i nostri prodotti artistici? E non è ancora più forzato guardare, come fa Caillois, alle pietre come immagini sedimentate, allegoriche, appunto pietrificate di una qualche forma di vita?

Embé? Non ho niente contro le forzature, in genere non sono una cultrice del corso naturale delle cose. Procediamo.

Trovare somiglianze tra il mondo minerale a quello animale, e tracciare corrispondenze stupefacenti, è sciocco piacere da poeti romantici. L’idea che l’architettura sia metafora del corpo, e che quindi la pietra sia analoga a un organo, il labirinto alle interiora, la rovina alla carne malata o distrutta, eccetera, non regge nemmeno più, filosoficamente, nell’epoca in cui le tecnologie sono diventate senzienti.

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Mario Perniola, Il sex appeal dell'inorganico, Ed. Einaudi

Altra cosa è anelare alla vista e al contatto della pietra e dei suoi dettagli per avvicinarsi all’intimità della terra, e in questo rivelare un’ambizione erotica della conoscenza.

Che Caillois veda la pietra in termini erotici è chiaro qui

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Nell’impenetrabilità delle pietre, nella loro durezza riottosa, si racchiude gran parte del loro fascino. Spezzare una pietra, tagliarla con lame affilatissime, e rivelare il suo interno inviolato, il disegno in sezione della sua carne, è un’esperienza da intenditori, un gesto che mette in contatto con un sacco di cose, dalla fisica alla filosofia alla esperienza estetica.

L’altro giorno ho anticipato che avrei parlato ancora di Villa Adriana. Ecco.

Lì la pietra è sia parte di un panorama artificiale, sia risultato di una piega della natura che ha nei secoli riaffermato il suo potere, sia testimonianza storica, cioè rovina.

La pietra a Villa Adriana sembra assorbire e rimandare un linguaggio silenzioso. C’è un travaso continuo nella pietra di questo posto, anzi, un insieme di travasi diversi: il sincretismo tra stili voluti da Adriano (un travaso geografico, estetico); i numerosi passaggi umani, nel tempo (pare che Piranesi, il più grande disegnatore di rovine, abbia messo la sua firma sulla parete del criptoportico della Peschiera

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qualche anno prima, ma proprio vicinissima, a quella di Jessica ’79); il flusso fatto di: panorama personale di Adriano, racconto di Yourcenar che dà a quello una voce, biografie personali di noi passeggiatori delle rovine.

Che tipo di godimento estetico porta la visione della rovina? Un godimento svincolato dalla tirannia della forma, come si legge qui

Franco Speroni, La rovina in scena, ed. Meltemi

C’è un travaso anche, ovviamente, tra l’organico e l’inorganico. Peter Greenway, che è uno intelligente, lo ha capito: Il ventre dell’architetto, girato in parte dentro Villa Adriana, è un film sulla malattia come somatizzazione della rovina, e viceversa.

«Non riesco a mangiare senza vomitare», scrive l’architetto Kracklite al suo medico, «se inspiri e premi il dito a destra dell’ombelico, non senti anche tu una protuberanza dura? Certi giorni è una sfera, certi altri sembra un cubo; il più delle volte sembra una piramide. I Faraoni soffrivano di crampi all’addome? L’Imperatore Adriano morì di un’ulcera perforata…».

L’architetto sente che la vita, coi suoi cardini di salute, amore, famiglia, ispirazione, lavoro, ricerca, piacere estetico, piacere sessuale, si erode. Comincia a circondarsi di statue con ventri prominenti, e quelle pance di pietra, insieme eccessive e insufficienti perché non vive, diventano l’immagine pietrificata della sua ossessione per le viscere.

La pietra, il marmo, diventa per lui qualcosa dentro cui acquietarsi, un pensiero che lo calma, lo libera dalla paura della morte. Lo choc prodotto dalla vista continua della rovina-Roma diventa allegoria di un paesaggio gastrico che sembra condurlo alla caduta definitiva (SPOILER: sceglierà per suicidarsi il più brutto monumento di Roma, forse l’unico famoso al pari del Colosseo a non essere una rovina).

Tra l’altro, lo dico perché so che queste cose vi piacciono, guardate dove Kracklite vomita: è nel critpoportico, proprio vicino alla firma di Piranesi.

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Daniela Ranieri

Daniela Ranieri vive a  Roma, anche se si domanda perché ciò dovrebbe avere importanza in questa sede. Ha fatto reportage e documentari per la tv. Ha fatto anche la content manager, per dire. Vende una Olivetti del '79, quasi  nuova. Crede che prendere la carnitina senza allenarsi faccia bene uguale. Ha pubblicato il pamphlet satirico "Aristodem. Discorso sui nuovi radical chic" e il romanzo "Tutto cospira a tacere di noi" (entrambi Ponte alle Grazie) 

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