La resistenza anti-sovietica in Lituania
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La resistenza anti-sovietica in Lituania

Un incontro a Roma nel XXV della liberazione dal dominio sovietico per raccontare una storia poco conosciuta fatta di anni di guerra partigiana

“Una persona umana può essere più forte di un carro armato”. Sta in questa bella frase di Kotryna Vilkaité, nipote del capo supremo del movimento di resistenza anti-russa Jonas Zemaitis, il senso di una giornata dedicata alla storia recente della Lituania, nel XXV anniversario della liberazione dal dominio sovietico.

L’incontro – che si è svolto il 6 marzo a Roma, per iniziativa dell’Ambasciata e della Comunità lituana in Italia, e ha visto la partecipazione di diversi esponenti politici italiani fra i quali Deborah Bergamini, Responsabile della Comunicazione di Forza Italia - è servito a raccontare una storia che pochi conoscono, quella della resistenza dei lituani contro i sovietici, in nome della libertà nazionale, civile e religiosa.

Una storia fatta di anni di guerriglia partigiana, durata dalla seconda guerra mondiale fino alla metà degli anni 50, raccontata dello storico Rokas Tracevskis in un bel libro tradotto in italiano con il titolo “La guerra sconosciuta”.
La resistenza venne soffocata nel sangue, con migliaia di morti e decine di migliaia di deportati in Siberia “sui carri bestiame, perché i lituani non erano esseri umani”, come spiega commossa la Vilkaité, promotrice ed anima dell’iniziativa, la cui famiglia subì 30 anni di deportazione, e che oggi si occupa da volontaria, come molti giovani del suo Paese, di un lavoro importante e pietoso: onorare la memoria dei deportati, andando in Siberia, a cercarne i nomi, i luoghi, le tombe.

Una storia che continuò, anche dopo la fine della lotta armata, con manifestazioni di massa represse dalla polizia, nelle quali, racconta Birutė Burauskaité, direttrice del centro studi sul Genocidio e la resistenza Lituana, “si inneggiava alla libertà per la Lituania ma anche per l’Ungheria”. In questa resistenza disarmata, racconta ancora la studiosa, anche la Lituania ebbe il suo Jan Palach: meno noto in occidente dello studente di Praga, il giovane Romas Kalanta si diede fuoco nel 1972 per protestare contro l’oppressione del suo paese, e in breve la sua tomba divenne un punto un simbolo per tutti coloro che si battevano per la libertà. Una lotta in apparenza impossibile, per in piccolo paese che la potente URSS considerava parte integrante del suo territorio e provò con ogni mezzo a russificare. Una lotta basata anche e prima di tutto sulle idee: vere e proprie stamperie clandestine sfidarono il regime sovietico facendo circolare i libri del dissenso, ma anche la letteratura tradizionale in lingua lituana, e i proibitissimi testi religiosi.

Già, la religione: la Lituania è un paese fortemente cattolico, e - come ha spiegato Irena Vaisvilaité, ambasciatore lituano presso la S. Sede – proprio le organizzazioni religiose svolsero un ruolo fondamentale, nei cinquant’anni di comunismo, per tenere insieme l’anima del popolo lituano, le sue radici, le sue tradizioni e i suo valori.

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Redazione