Veloce la vita
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Sylvie Schenk, ‘Veloce la vita’ - La recensione

Francia e Germania, resistenza e riconciliazione: una novella agrodolce, a tempo di jazz

Se lo trovassi su una bancarella dell’usato potresti pensare che sia - complice anche la pensosa copertina in bianco e nero - un vecchio libro dimenticato. Eppure posandovi sopra uno sguardo scettico potresti non riuscire a distoglierlo più, avvinto dalla naturalezza con cui lascia brulicare ricordi immagini palpiti pensieri dubbi e paure dentro lo scorrere implacabile del tempo. In Germania un paio d’anni fa i librai lo hanno scelto fra i 5 libri dell’anno e ora finalmente possiamo leggerlo nella traduzione di Franco Filice per Keller, lungimirante editore trentino: Veloce la vita di Sylvie Schenk somiglia a quei sogni da cui ti risvegli stranito. A quei viaggi che, come suggerisce il titolo, finiscono sempre troppo presto.

Ombre e luci nel gioco della vita

Equilibrato mix di invenzione e diario - la protagonista, proprio come l’autrice, nasce in Francia, studia a Lione e poi si trasferisce in Germania dove inizia a scrivere - Veloce la vita è un raro romanzo scritto inseconda persona. “Come ragazzina degli anni Cinquanta sei consapevole dei tuoi complessi di inferiorità e preferiresti essere maschio”: a partire da questo assertivo incipit Sylvie Schenk dà del tu alla sua eroina, Louise, e del voi agli amici che ne condividono il viaggio. Ci si mette poco a entrare in sintonia. Lo stile è lieve, piacevole, fluidissimo pur passando di continuo dal racconto dei fatti al dialogo interiore. Il medesimo Tu si muta allora in un Io che sembra uscire dal guscio, guardarsi dal di fuori, parlare a sé stesso.

Louise cresce in un paesino delle Alpi francesi, imparando ad amare la natura, a odiare il male e la stupidità degli esseri umani. ll senso di oppressione proviene soprattutto dalla famiglia ma comincerà a scoprirlo solo a vent’anni, quando attraversa il Rodano per frequentare l’università a Lione. Lì si apre una stagione nuova, di amicizie fondative: la ribelle Francine, il sognatore Soon, l’inquieto Henri e il pacifico Johann, che ha lasciato una famiglia ingombrante in Germania per studiare farmacia in Francia, e come lei sta facendo apprendistato della vita. Il cuore di Louise oscilla fra il dionisiaco (Henri) e l’apollineo (Johann). Alla fine sceglie convintamente quest’ultimo seguendolo in patria, dove cerca di costruirsi un futuro sotto l’ala di un uomo (di una famiglia) rassicurante. 

Missione impossibile quella di costruirsi un’identità stabile, lei che si è sempre sentita estranea ovunque, estranea perfino a sé stessa. Ma quello che importa - in questo libro come nella vita - non è la meta finale quanto il viaggio, la sua coerenza, la sua densità e la traiettoria. Chiusa l’ultima pagina, la vita di Louise appare come un proiettile senza bersaglio che lungo la strada, semina una mole di immagini e pensieri da lasciare senza fiato. Dilemmi non solo esistenziali ma anche storici e politici, pedagogici, sociologici, teleologici. Mischiati ai processi inconsci che orientano le azioni umane e ai codici affettivi che delimitano il nostro orizzonte sociale: genitori, figli, fratelli e sorelle, nonni, il gruppo dei pari, ricombinati con le varianti universali legate al tempo, alla nascita e alla morte, al bene e al male, alla sessualità.

La letteratura fra mascheramento e smascheramento 

Di tutto questo parla, accelerando impercettibilmente verso un finale da brivido, Veloce la vita. Cruciali sono i riferimenti ai conti in sospeso dei baby boomers, i nati nel dopoguerra, con la generazione dei padri. Specie in Germania dove l’onta del nazismo fu scoperchiata solo a posteriori, come ha raccontato anche Il labirinto del silenzio, splendido film di Giulio Ricciarelli (2016). I genitori ebrei di Henri sono stati trucidati dai nazisti, il padre di Johann ha un passato opaco nelle file della Wehrmacht. Ma i figli perché dovrebbero sentirsi in colpa? È una colpa forse desiderare chiuso il passato per vivere in pace l’epoca di riconciliazione? È una colpa se la condivisione dei valori borghesi finisce per prendere il sopravvento anche sulla divisione delle frontiere?

E d’altra parte, è giusto rimuovere, fare finta di non sapere da dove veniamo? Cioè come si fa a non domandarsi se le persone comuni che aderirono più o meno forzatamente al nazismo furono coresponsabili, o non forse anch’esse vittime, del genocidio? Tabù come questi scoperchia Sylvie Schenk affidando ai due coprotagonisti maschili - l’affidabile, asmatico Johann e il vulcanico pianista Henri - il senso di colpa per le colpe dei padri. Genitori e figli in questo romanzo sono la fonte di un dualismo inconciliabile che finisce per contaminare tutto: il senso di responsabilità contrapposto al richiamo selvaggio della libertà, il bisogno di solitudine accanto a quello di stare con gli altri, l’afflato spontaneo verso la natura contro la disciplina rassicurante della cultura, l’ossessione per la verità contro la tentazione di chiudere gli occhi.

“Una volta trovi una banconota per strada. La infili di nascosto nel portafogli di tua madre”. Sintomo di una fanciullezza sensibile alle dinamiche adulte e naturalmente portata a soffrire per le pene degli altri come per le proprie, questo piccolo evento è significativo del mood di Veloce la vita. Le sue metafore sincopate, spesso sullo sfondo del paesaggio alpino, sono tracciate su uno spartito musicale raffinato, ispirato al Miles Davis di Taste of Honey. Ci sono nelle famiglie zone oscure forse meno eclatanti di una precoce adesione al nazismo, eppure possono avere sui figli effetti ben più indelebili. I genitori che sono “dentro i propri figli”, li chiama Louise, la donna che scivola di continuo ma non si arrende, fedele a un patto che ha sottoscritto molti anni prima con l’uomo che ha scelto. Il suo accettare la vita con tutte le seduzioni, le contraddizioni e l’usura che ciò comporta, ce la fa amare come una sorella. 

Sylvie Schenk
Veloce la vita
Keller
176 pp., 15,50 euro

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Michele Lauro