Quel viaggio Lonely che dura da 40 anni
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Quel viaggio Lonely che dura da 40 anni

Tony e Maureen Wheeler si sono sposati a Londra nel 1972, anno in cui hanno cominciato a viaggiare per passione e per lavoro. Sono i fondatori delle celebri guide Lonely Planet

Nel luglio di quarant’anni fa due londinesi poco più che ventenni, freschi di matrimonio, decidono di partire per un anno e togliersi una volta per tutte la voglia di viaggiare. Tony e Maureen Wheeler escono dal retro del giardino di casa dei genitori di lui a bordo di un piccolo furgone e cominciano a percorrere la mitica «rotta hippy».

Arrivano in Australia con soli 27 centesimi in tasca ma con preziosi diari pieni di appunti. Per rispondere alle centinaia di domande di altri viaggiatori, sul percorso appena compiuto decidono di scrivere a quattro mani la prima guida per chi, libero e in piena autonomia, vuole partire per la trans asiatica.

La loro guida spopola e in pochi mesi praticamente un backpacker su quattro ne ha una copia nello zaino. Sorpresi dall’enorme successo, decidono di fare sul serio, fondano la Lonely Planet Pubblications, dando il via a uno dei colossi editoriali più importanti al mondo nel settore viaggi (oltre 6 milioni di libri venduti ogni anno). E accompagnando, con meticolosa attenzione, generazioni di viaggiatori.

Oggi, a 40 anni da quella prima impresa, i Wheeler non hanno smesso di viaggiare.

Signor Wheeler, come è andata quel giorno di luglio di molti anni fa?

Mia moglie e io siamo saliti in auto, ci siamo guardati e abbiamo cominciato a guidare senza alcuna certezza su quanto lontani saremmo andati. Sapevamo solo che qualcosa di eccezionale ci sarebbe successo.

Avevate un programma di viaggio?

Volevamo tentare di raggiungere l’Australia, ma non avevamo un itinerario preciso. I soldi erano pochi e la voglia di vivere nuove esperienze enorme. Il caso ha fatto tutto il resto.

Quando e come ha realizzato che viaggiare sarebbe stato lo scopo della sua vita?

Non molto dopo la pubblicazione del nostro secondo libro, South-East Asia on a Shoestring, verso la metà del 1975, ho compreso che il progetto Lonely Planet sarebbe diventato un vero lavoro. Mi piaceva stare in giro e raccogliere informazioni per poterle condividere. Quello che scrivevo rendeva il viaggio degli altri più facile e questa per me era la soddisfazione più grande, mi sentivo realizzato. I veri viaggiatori sono sempre pronti a dare una mano e io lo stavo facendo su larga scala.

Da dove arriva il nome Lonely Planet?

Si tratta in realtà di una svista. Era il 1973 e stavamo pensando al nome da dare alla nostra impresa. Andammo al cinema a vedere Mad Dogs & Englishmen, la storia on the road di un gruppo rock, con Joe Cocker. A un certo punto Cocker canta un pezzo dicendo: «Lonely Planet caught my eye» (Il pianeta solitario catturò i miei occhi, ndr), la poesia della frase mi aveva toccato il cuore. Avevo finalmente trovato il nome giusto... peccato che la strofa esatta dicesse «Lovely Planet» (lovely vuol dire bello, amabile, ndr). Avevo toppato, ma ormai era tutto deciso.

Lonely Planet è sempre stata la prima a realizzare guide per paesi inusuali?

In genere sì, siamo stati dei pionieri in questo campo. Amavamo, e amiamo ancora, visitare i luoghi più sperduti perché siamo profondamente curiosi.

Esistono posti ancora da esplorare?

Direi che è difficile trovare oggi luoghi totalmente inesplorati. Più che altro consiglierei di dirigere lo sguardo verso le destinazioni che meritano più attenzione di altre in questo momento storico. Yemen, Libia, Afghanistan e alcuni stati africani, attualmente oppressi da disordini interni, sono certamente le preziose mete di domani. Anche l’enorme India, che viene visitata solo in minima parte, ha bisogno di essere scoperta molto di più.

Pensa che le guide da lei create abbiano mai aiutato zone del mondo con problemi economici o crisi sociali?

Assolutamente sì.

Per esempio?

Abbiamo avuto un ruolo nella caduta del governo di Menghistu Haile Mariam in Etiopia. Amo questa storia. Nel testo Zanzibar Chest si legge di come l’esercito ribelle riunito prima di entrare in Addis Abeba si accorge di non conoscere la capitale e di non avere mappe della città. Un ragazzo a un certo punto tira fuori una vecchia edizione della nostra Africa on a Shoestring. Sulle mappe della guida ci sono solo alcuni nomi di strade, ristoranti e hotel economici, ma tanto basta per lo scopo. Le mappe vengono fotocopiate e distribuite a tutti i mezzi blindati e agli ufficiali di fanteria pronti a entrare in azione e rovesciare la dittatura.

Critiche alle vostre pubblicazioni?

A volte, purtroppo, ci è successo di commettere errori di stampa che hanno in effetti causato grandi fastidi. Se l’autobus arriva nel paese di campagna a mezzanotte e tutti usano la guida per telefonare all’unico albergo, il numero di telefono deve essere corretto. La volta in cui non lo è stato, centinaia di persone hanno chiamato una famiglia locale durante il loro prezioso sonno. Ci hanno anche accusato di avere rovinato alcune località. La frase: «Il paese era tranquillo e pacifico fino a che non è stata pubblicata la guida» l’abbiamo sentita spesso. Siamo uno dei molti fattori di cambiamento.

È vero che in certi paesi le vostre guide sono vietate?

Sì, la nostra onestà in alcuni casi ha dato fastidio al punto da proibire la distribuzione dei nostri testi.

Quale guida considera la sua preferita?

Ce ne sono molte. Innanzitutto South-East Asia on a Shoestring: mi rende felice sapere che con quel libro abbiamo regalato tante belle esperienze a migliaia di persone. Un’altra che amo è l’India, anche perché è stato il libro che ci ha permesso di raddoppiare in poco tempo i profitti dandoci l’opportunità di pubblicare tante altre guide. Tengo molto anche alla Birmania. Spero che il nostro lavoro aiuti quella splendida terra a uscire dal buio.

C’è una lista dei sogni di Mr Wheeler?

Certo, ed è una lista molto lunga. Nella mia top ten del momento vorrei: navigare sulla nave Aranui seguendo la rotta da Papeete verso le isole Marchesi, visitare i vulcani delle Vanuatu ed esplorare il relitto del famoso Black Jack, il B17 precipitato davanti alla Papua Nuova Guinea, vedere la misteriosa Chernobyl e attraversare l’India a bordo di una moto Enfield India.

Alla fine cosa rende memorabile un viaggio?

Credo sia la sensazione di arrivare a fare qualcosa che pochi hanno fatto. Può succedere ovunque. Nell’ultimo anno mi sono sentito così quando ho visitato il relitto dell’aereo dell’ammiraglio Yamamoto vicino alle Isole Salomone e quando in Congo ho incontrato i gorilla. Ma anche quando ho passeggiato nel deserto del Negev in Israele con alcuni amici o la notte in cui ho ascoltato i Ram nel loro ultimo concerto a Port-au-Prince.

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