Berta Isla
Artwork © Penguin Random House Grupo Editorial. Foto © Quentin de Briey
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Javier Marías, ‘Berta Isla’ - La recensione

L’opacità del mondo, l’impenetrabilità dell’altro, lo scorrere implacabile del tempo: storia di una Penelope contemporanea

Anche se non si è mai sposato, Javier Marías è sempre stato affascinato dal matrimonio, dalle sue zone oscure. Indagatore dell’esperienza umana fin negli anfratti più minuti della psiche, lo scrittore madrileno fa ruotare il suo quindicesimo romanzo attorno all’ambiguità di istituzioni (il matrimonio ma non solo) nate per mettere ordine, infondere sicurezza, proteggere. In realtà non sappiamo niente dell’amore e i suoi segreti, della moralità provvisoria delle persone o degli stati sovrani, neppure del partner con cui abbiamo deciso di condividere la vita. E ciononostante siamo disposti a illuderci, cos’altro potremmo fare? 

Ciò che chiamiamo il principio è spesso la fine

Libro dell’anno per El Pais, Berta Isla appartiene al novero delle opere senza tempo pur essendo ambientato in un luogo (anzi due, Madrid e Oxford) e in un’epoca ben precisa, gli anni Settanta-Ottanta del secolo scorso, e pur essendo ricco di riferimenti a eventi storici come la guerra delle Falkland e i disordini nell’Ulster. Javier Marías prende il genere dello spionaggio e lo stravolge, lo piega alle sue ossessioni. Il lettore se ne avvede in ritardo, quando è già totalmente preso da quel ritmo argomentativo capace di ruotare ogni pensiero come un prisma, mostrandoti ogni sfaccettatura, ogni conseguenza, ogni contraddizione. Qui il protagonista non ha scelto di diventare uomo d’azione ma la sua vita si muta, suo malgrado, in un’avventura. 

Il racconto di questa avventura (la genesi, la ragione, lo scopo, il drammatico sviluppo) è precluso a sua moglie, alla sua famiglia, ai suoi amici e ai suoi figli. Ma non solo. È precluso anche al lettore. Marías non fa differenze, noi siamo come la povera Berta: ci dobbiamo struggere e saziare solo dell’avventura interiore. Per trovare infine che il vero, il giusto, il bello, l’opportuno sono solo punti di vista pronti a capovolgersi nel loro contrario a una sterzata del caso. Penso al Roth di Pastorale Americana, prototipo del romanzo contemporaneo tornato in auge con la scomparsa del suo artefice, quando diceva “ecco come sappiamo di essere vivi: sbagliando.” La storia di Berta Isla perlustra quei paraggi pieni d’angoscia e di compassione attorno a cui ruota la grande letteratura: la vita come illusione

Ecco allora una coppia con tutti i tasselli al loro posto per un futuro appagante. Bellezza, talento, ambizione, senso di responsabilità, solidità economica. Tomás Nevinson e Berta Isla si innamorano precocemente nella turbolenta Spagna dei Settanta. Tom perfeziona a Oxford la sua formazione, Berta resta a Madrid. Un evento casuale (ma un tradimento, anche se solo carnale, non è mai casuale dal punto di vista letterario, morale, psicanalitico) lo obbliga a entrare in clandestinità al servizio della Regina. Da quel momento la segretezza, il non detto, l’intermittenza affettiva improntano la loro relazione: vivevamo “insieme, ma dandoci le spalle” riassume icasticamente Berta.

In attesa di un racconto, il racconto di un’attesa

Berta Isla è la storia di un’attesa, paziente disperata e poi rabbiosa rassegnata luttuosa e infine addirittura desiderabile, perché “chi si abitua a vivere nell’attesa non ne accetta mai del tutto la fine”. E perché l’inesorabilità del tempo che passa cambia i contorni dell’attesa stessa, ne sposta i confini, finché “siamo soppiantati dagli adulti e dai vecchi in cui senza volerlo ci trasformiamo”. Marías ci propone i punti di vista di entrambi i protagonisti alternando prima e terza persona, brani filosofici, digressioni psicologiche, sociali, politiche, rimandi occulti all’intera sua opera narrativa (compreso il ripescaggio dell’ispanista Peter Wheeler e del torbido reclutatore Bertram Tupra dalla trilogia Il tuo volto domani) e altri invece molto espliciti alla storia della letteratura.

Niente di strano. L’opera di Javier Marías è tradizionalmente ispirata da (pochi ma essenziali) numi tutelari. Shakespeare innanzitutto: qui l’apologo dell’Enrico V - la notte prima della battaglia quando il re si mescola alle truppe sotto mentite spoglie - serve ad affrontare i dilemmi della menzogna a fin di bene, della lealtà di fronte all’ingiustizia, dell’istinto di sopravvivenza contrapposto al dovere dell’ubbidienza. A Dickens rimandano le teorie dell’inconoscibilità (“ogni creatura umana è destinata a costituire un profondo e segreto mistero per tutte le altre”), a T.S. Eliot desolate sentenze (“Però si sopravvive, che fortuna e che disgrazia”).

C’è un fondo di inconsolabile cupezza nell’archetipo omerico che presiede alla novella: l’abbandono giustificato dal dovere. Viene da dire ma no, non vanno così le cose. Deve pur esistere qualcosa di stabile e retto e duraturo, di non contaminato: in famiglia, nella società, nel mondo del lavoro. Invece il dubbio si fa strada e resta lì appeso, latente. “Gli credetti e non gli credetti, tutte e due le cose insieme” conclude Berta violando il principio di non contraddizione. 

Senza il privilegio della nostalgia

Ancora una volta non è strano, in un libro così, sentir parlare la lingua dei sogni. Più difficile e doloroso è cercare di decifrarne le simbologie. Berta non può essere, come Penelope, simbolo della fedeltà coniugale perché il suo matrimonio è avvolto da una foschia vischiosa, privo di una narrazione univoca, di una memoria condivisa. Allora perché aspetta, e che cosa? La sua forza è la sua debolezza: può la menzogna essere una forma di condivisione? 

Irrimarginabile è soprattutto, accanto alla consapevolezza di "passare sulla terra senza che la nostra presenza la alteri minimamente”, la ferita di veder continuamente apparire il bene nel male e, peggio, il male nel bene. “Così inizia il male”, potremmo dire della trappola tesa in gioventù a Tom Nevinson, con la formula cara a Shakespeare-Marías. Ma è sempre il “peggio che resta indietro” la cosa più difficile da accettare: i futuri possibili non vissuti eppure non meno reali, la paura silenziosa e costante mischiata alla speranza, la percezione che il tempo modifica tutto e tuttavia non cancella. 

Accettare il limite di essere umani, cioè il fatto che nessuno ha scelto la propria vita e che possiamo vivere nell’errore continuo, è il sovrumano sforzo che attende ogni Penelope di questa terra. Ai tanti Ulisse invece Berta suggerisce un finale quasi mai scritto: “il peggio è il ritorno, quando è passato troppo tempo nessuno dovrebbe tornare”.

Javier Marías
Berta Isla
Einaudi
480 pp., 22 euro

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Michele Lauro