Giorgio Manganelli, 'Cina e altri Orienti'
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Giorgio Manganelli, 'Cina e altri Orienti'

Il viaggio è simbolo, iniziazione, esperienza di sé con l'altrove e il diverso. L'Oriente di Manganelli è "brivido culturale, guado dell'intelligenza, rivolgimento degli archivi mentali". Luogo dell'anima. Benvenuti nel passato mitico di ciascuno di noi.

I reportage di Giorgio Manganelli spaziano dal 1972-73 (il primo viaggio in Cina) al 1975-1987 (i viaggi in Medio Oriente). Proprio al 1975 risale la sconvolgente immersione, durata circa un mese come inviato della rivista Il Mondo, nel "lunapark teologico" indiano. Esperienza riassunta nel 1993 in un libricino indimenticabile pubblicato sempre da Adelphi, Esperimento con l'India . Ci sono voluti altri vent'anni ma ecco finalmente l'intero corpus dell'opera che lo scrittore milanese curò minuziosamente fino a pochi mesi prima di morire (1990), affidato alle sapienti (e amorevoli) cure di Salvatore Silvano Nigro: Cina e altri Orienti .

L'entusiasmo di Manganelli per l'Oriente nasce da una promessa platonico-junghiana: il recupero della metà di sé da cui la nascita ci ha brutalmente separato. Come madre e figlio, Occidente e Oriente provengono da un unico grande ombelico (lo stesso continente asiatico d'altronde non è che un'invenzione dei geografi). Ma il raffinatissimo retroterra culturale dello scrittore non basta a scoprire i "modi ingegnosi in cui l'altrove si nasconde sotto l'apparenza dell'ovvio". Il viaggio sapienziale muta allora come per magia in una traversata magico-alchemica attraverso la gamma di ritualizzazioni di cui solo l'Oriente conserva quotidiana memoria.

Fin dalla pancia dell'aeroplano, pachiderma svogliato dalle sembianze umane, Manganelli abbandona all'Oriente il suo io fanciullo, l'istinto, le viscere, il corpo goffo sempre sull'orlo del panico. Con curiosità onnivora comincia a pascersi di "enigmi, emblemi, enteroideogrammi". Ai sensi (e agli analgesici) affida l'avanguardia del conoscere, come Johann Wolfgang Goethe proclamò nella sua Egira: "Io voglio mescolarmi / ai pastori, riavermi nelle oasi, / vagabondare con le carovane, / vendere scialli, muschio, / caffè, mettere piede / su qualunque sentiero, / dalle città al deserto".

Nella Malesia elusiva e cordiale, per esempio, lo scrittore approda per caso, calamitato per improvvisa, irrazionale seduzione. Ma i sensi avevano ragione a pregustarvi una sorta di arcadia pre-ellenica, una periferia del mondo con quell'aria umida di siesta perenne, il senso d'esotico ancestrale che la malattia d'Occidente ancora non riesce a scalfire. Questione di tempo. La ferocia motorizzata di Bangkok ammicca a ciò che diventerà Kuala Lumpur. Inesorabile, l'Occidente è "una lebbra seducente, una sifilide esornativa, una psoriasi efficiente".

All'ironia Manganelli affida non solo le frecciate alla prepotenza del mondo occidentale ma, come scrive Nigro nella postfazione, anche la sua leggenda di uomo che da pingue sedentario imparò a trasformarsi in inviato speciale e poi in professionista del viaggio e della letteratura di viaggio. Come nel magistrale incipit del capitolo intitolato Chi ha rubato le Filippine?, ogni gesto quotidiano viene registrato pedissequamente a caccia di inconsueti sussulti di vita: "Sono davanti alle ceramiche igieniche internazionali, impettito e indecoroso, e sto pisciando. Ed ecco sento una spazzola leggera che percorre affettuosamente la mia schiena".

Leggere oggi Cina e altri Orienti è, inevitabilmente, anche un modo per conoscere, confrontare e disconoscere un Oriente che non c'è più. Ma è poi così vero? Mi sono sorpreso pochissime volte a chiedermi cosa avrebbe scritto oggi Manganelli di Singapore e Karachi, Shanghai e Manila, metropoli simbolo di un Oriente tecnologico e interscambiabile. La modernità non ha intaccato nel profondo il centro psicologico dei luoghi, individuato 30-40 anni fa dallo scrittore con rabdomantica precisione: la vita e la cucina cinese aromatizzate d'artificio; la vita occulta di Taiwan, "l'unico lembo di Cina che non abbia conosciuto l'invasione della storia e delle ideologie"; la dolcezza di Malacca e il caos di Kuwait City, fondata sul materiale onirico occidentale come potrebbe esserlo oggi Dubai; Bangkok pustola in forma urbana.

Bulimica, estrosa, impetuosa, fantasiosa, arcaica, ilare e futuristica. La prosa di Giorgio Manganelli regala una sorpresa a ogni riga anche se costringe a prendersi continuamente pause, per aiutare la digestione come dopo aver mangiato troppo. Cina e altri Orienti è una formidabile grammatica barocca di sinonimi e contrari, onomatopee pulsanti, figure retoriche che prendono vita come fuochi d'artificio. Manila? un aeroporto con le emorroidi. Hong Kong? un bordello tecnologico. Kuala Lumpur? il trionfo del bastardo. Lahore? segreto furore romantico. Malesia? un'insalata clandestina di giungla.

Memorabile è, fra gli altri, il campionario di rumori della giungla, intraducibili nel dizionario europeo ma dal suono straordinariamente jungle rock: un crocidìo, un lagno, uno stronfiare, un gloglottìo tacchinesco e sottomarino, e poi ancora un "purè di elitre in febbrile movimento; un gratta gratta su una plebea ghironda di sottobosco... un vibrafono di chele, uno scacciapensieri di antenne". Il trionfo dell'aggettivazione lisergica alimenta l'epopea del paradosso apparente, elevando l'ossimoro da trucco linguistico a categoria dello spirito.

Prendo a prestito la più solenne di queste accoppiate, riferita dall'autore alla città di Baghdad ma facilmente sovrapponibile al senso di ogni viaggio e alla magia di questo stesso libro: un eterno effimero.

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Michele Lauro