L'amore a vent'anni
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Giorgio Biferali, ‘L’amore a vent’anni’ - La recensione

Il mito romantico di Truffaut riletto da un romanzo che somiglia tanto alla vita

Se qualcuno serbasse un ricordo sbiadito di com’era L’amore a vent’anni, un romanzo di rara freschezza linguistica e introspettiva rimette in circolo emozioni a cascata. Proprio così. Giorgio Biferali esordisce con una sicurezza sorprendente, addirittura sfacciata. Prende la parola più abusata della storia e le costruisce attorno un libro-calamita: bastano le prime tre pagine – l’elenco delle cose che l’infanzia si sta portando via – e sei dentro, risucchiato nella sua trama leggera di righe fitte senza capoversi. 

Il peso dell’anima quando finisce l’innocenza

Una vertigine progressiva. Respiri solo al cambio dei capitoli, 21 volte in tutto, allora ti scopri a pensare Be’ sì anch’io quella volta in metropolitana, quando giocavamo a cosa ti piace di più…, oppure Ma va’ i Kings of Convenience o La casa di Hilde pensavo di averceli solo io nelle playlist che facevo per crogiolarmi nello spleen…, oppure Anche mio padre e mia madre erano una coppia che si reggeva su dei non detti paurosi, oppure Anche nella mia famiglia c’era un mostro che rapiva mia madre ogni 7-8 anni. Ti scopri a domandarti magari Dove andava mio padre quando si alzava da tavola e si metteva in castigo da solo? 

Nel diario-confessione di Giulio c’è un malessere che è anche tuo. Una punta amarissima in un piatto dolce, e non è solo la “rimembranza confusa della nostra fanciullezza” di cui parlava Giacomo Leopardi nello Zibaldone. Intossicato come il bambino che entra per la prima volta in un negozio di giocattoli, mentre avanzi nella lettura finisci per confondere ricordo immaginazione e pensiero, contagiato dalla matrice subdola della passione. Da quel mischione di idealismo e testosterone, poesia e spazzatura, slancio e paura che marchia a fuoco ogni giovinezza.  

Madre padre fratelli, genitori che rimangono insieme con la colla dell’abitudine, le ragazze, gli amici, la prima cotta, la malattia, la gelosia e il perdono, la perdita e il tradimento, il tabù. Da Ovidio a Devendra Banhart, passando attraverso Woody Allen e Truffaut, José Saramago e Gigi Marzullo, Eric Fromm e Sigmund Freud, Petrarca e Dino Buzzati, Giorgio Biferali bypassa millenni di luoghi comuni sull’amore con la semplicità di una storia che incorpora tutto – la letteratura, il cinema, la poesia, la musica, la Tv, l’arte contemporanea, Facebook Instagram Tinder – dentro i suoi archetipi esistenziali

Lingua mortal non dice

Giulio parla la lingua di quegli affetti che mentre li vivevamo non abbiamo mai potuto vedere. Come in un sogno, ci mostra qualche frammento d’anima dietro una folla di residui diurni. L’amore un giorno ti fa sentire leggero, il giorno dopo ti presenta il conto: la verità sfuggente, il senso di spossessamento, l’angoscia da rimuovere subito. A poco a poco si riattivano le paure infantili, i meccanismi difensivi, gli incubi del dover crescere a tutti i costi. Era quando si cominciava a diventare adulti nella cameretta che avevamo appena arredato coi poster dei supereroi, ma nessuno degli altri e neppure noi stessi eravamo pronti. Né sapevamo mettere a fuoco i genitori come esseri umani imperfetti, o addirittura avversari. 

L’amore a vent’anni è una seduta psicanalitica osservata dietro uno specchio, dove sembra di avvertire l'ascesa dei pensieri allo strato della coscienza. Il racconto di Giulio libera in presa diretta le emozioni in maniera non filtrata, senza uno sfondo morale su cui appoggiarsi. E regala la sensazione d’aver vissuto una stagione della vita di cui non abbiamo capito niente. I pensieri e i sogni che stanno in questo romanzo al posto delle azioni danno voce finalmente al mondo di dentro: la parte di giovinezza rimasta muta, specie quella legata al rapporto padre-figlio.

L’ombra di mio padre, due volte la mia

Come nell’incipit del capitolo 9, bellissimo: “Se esistesse un mondo parallelo in cui ci sono le parole che non riusciamo a dire, io e mio padre lì staremmo dalla mattina alla sera a parlare, lui che mi racconta di come è stata la sua infanzia, di com’era il mondo quando c’erano ancora i suoi genitori…”. La famiglia, la gabbia, la coazione a ripetere. La violenza di marca paterna connessa alla sessualità, al taglio del cordone ombelicale. Come canta Appino degli Zen Circus in Catene, il singolo uscito in contemporanea con questo libro e che sembra la sua colonna sonora: “odiare se stessi per le stesse ragioni / che portano i bambini ad odiare i genitori / che portano gli amanti / a farsi del male / per poi dimenticarsene e ricominciare”. 

Roma vibra in questo romanzo come un fondale di passioni. I gradini della fontana di piazzetta Monti e i vagoni della metropolitana direzione Anagnina, piazza Colonna e il Pantheon, i Musei Vaticani all’alba senza i turisti in coda, le curve di Muro Torto e le installazioni del Maxxi durante la notte dei musei, la bancarella di libri in piazzale Flaminio presa d’assalto dai gabbiani e la minuscola libreria di una piazzetta nascosta dove la libraia ti consiglia Il senso di una fine, indovinando lo spartito della tua storia. È bello ritrovare la capitale come uno sfondo soltanto emotivo, dispensatore di microgioie come un bacio al pistacchio sui suoi millenari marciapiedi.

Divago per non arrivare alla fine e confessare che L’amore a vent’anni travolgesenza lieto fine, dopo averti ricordato quando ti dicevano Ormai non sei più un bambino o Ecco cosa succede ai bambini quando finiscono nel mondo dei grandi, dopo averti frastornato con domande tipo Come ti senti che la donna della tua vita l’ha sposata tuo padre, oppure Peccato che tuo padre è già sposato, frasi che sembravano messe lì a caso e invece. Chiusa l’ultima pagina viene spontaneo tornare all’inizio e ricominciare a leggere e a respirare, godersi di nuovo l’elenco delle cose di cui Giulio sentirà la mancanza. Lì allora forse capisci che quando i vent’anni sono diventati un oggetto d’amore, è solo perché sono finiti da un pezzo.

Giorgio Biferali
L’amore a vent’anni
Tunuè
188 pp., 14 euro

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Michele Lauro