Foster Wallace: perché parlarne è un dovere (che paga)
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Foster Wallace: perché parlarne è un dovere (che paga)

Lo scrittore, suicida nel 2008, è il culto del momento su media e social network. Fra adoratori, detrattori e qualche furbetto

di Stefania Vitulli

Di che cosa si alimenta un mito? Della carne e dell’anima di cui era fatto l’eroe che lo ha generato. Il mito dura perché intelligenza ed emozioni attingono a una verità, danno vita a storie su di essa e la rendono immortale. Può accadere però che il mito entri in concorrenza con l’eroe. E si alimenti di rimorsi, rimpianti, morbosità, ricordi manipolabili. Il fuoco di queste parole non è più la verità, ma il soggetto che le pronuncia.

Alle 21.30 del 12 settembre 2008 Karen Green ha trovato suo marito David Foster Wallace, 46 anni, impiccato con una cinta al tetto del patio di casa, a Claremont, in California. I polsi imprigionati dal nastro adesivo. Quel giorno i lettori attendevano il nuovo romanzo di Wallace da 12 anni e sulla scrivania del garage dove scriveva c’era la pappa per gli editor: i taccuini da rimasticare per l’incompiutoIl re pallido(Einaudi). Non c’è giorno più triste di quello in cui si suicida un amico. E toglie senso alla vita credere che un cervellone pieno di talento abbia smesso di credere nel senso della vita. Ma lo shock non giustifica la celebrazione compulsiva degli Amici scrittori che si sono trasformati in un Club del poeta estinto. L’affetto, corrotto dal virus della commemorazione infilata in ogni intervista, racconto, romanzo a chiave, marcisce. In confronto ai tributi letterari di Jeffrey Eugenides e Jonathan Franzen, meglio la nevrotica accusa «Impostore!» del nemico untore Bret Easton Ellis. Di tutte le carogne, almeno la iena fa ridere.

È la prima volta che editoria, media e social network trovano negli affetti privati una tale validazione alla costruzione di un amore: Wallace, neoimmaginetta di zuppa Campbell di cui non si butta via niente, è vetrificato, lucidato e inserito a nastro nel cofanetto di un’indiscutibile attribuzione di genialità che lo rende infrangibile, santo subito e per sempre. Tra gli ultimi ciocchi del falò, la "biografia ufficiale" con inevitabili "rivelazioni inedite": Every love story is a ghost story (Viking), a firma D. T. Max, giornalista del New Yorker che non lo ha mai
conosciuto (anche se tra le aberrazioni la più curiosa rimane Come diventare se stessi di David Lipsky: ha frequentato Wallace cinque giorni, ne ha ricavato 400 pagine). Si sente la noia, ma non si vede il rischio. Che invece c’è. Fatale. È la "sindrome Salman Rushdie": quanti tra coloro che lo difendono a suon di editoriali, post e tweet hanno davvero letto i suoi libri?

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