Bartezzaghi, La ludoteca di Babele
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Bartezzaghi, La ludoteca di Babele

Cosa intendiamo quando parliamo di "gioco"? E quanto è presente nella nostra società e nella nostra cultura?

Sabato mattina ho fatto colazione con un’amica, poi siamo andate a caccia di Pokémon. Inframmezzando l’avventura con un paio di commissioni, abbiamo fatto alcuni giri del quartiere provando Pokémon Go, l’applicazione in realtà aumentata appena lanciata da Nintendo. Abbiamo catturato quattro Pokémon, poi ci siamo salutate: durante tutta la “caccia” non siamo mai veramente uscite dal “reale”, opposto al gioco, ma non si può neanche dire che vi siamo rimaste del tutto dentro.
È questa compenetrazione tra ludico e reale, su cui si fonda nella maggioranza dei suoi aspetti la nostra società fluida, che Stefano Bartezzaghi cerca di mettere a sistema con La ludoteca di Babele (Utet 2016). Bartezzaghi, che di riflessioni sul gioco si è sempre occupato ed è figlio di quel Piero esperto enigmista sui cui cruciverba ogni italiano si è scervellato almeno una volta, delinea nel suo saggio le regole delle regole del gioco – bisticcio necessario – e i cambiamenti storici e sociali dei modi di giocarlo.

Società fluida
Bartezzaghi ha un ricordo di suo padre molto simile a quello di tutti coloro che sono stati bambini e ragazzini fino a una ventina di anni fa: genitori normalmente cordialissimi, se chiamati in orario di lavoro riducevano al minimo indispensabile la comunicazione e si rendevano disponibili solo in caso di impellenti problemi. Una distinzione tra lavoro e tempo libero che non è più così rigidamente marcata per la nostra generazione lavorativa: anche chi ha occupazioni scandite da un più rigido orologio può rispondere ad un messaggio del figlio, passare i cinque minuti di pausa sigaretta a giocare a Candy Crush, o controllare tra una scadenza e l’altra l’home page di Facebook, che come ben sappiamo costituisce un insieme schizofrenico di notizie serie, link alle ultime analisi politiche, foto buffe di animalini e meme in romanesco di Osho.
La stessa comunicazione non verbale – il messaggio del figlio – non ha più rigide codificazioni: da Whatsapp alla stessa chat di Facebook i messaggi vengono accompagnati da una serie sempre più ampia di Emoji, insieme senza limiti di immagini, in parte nate da un’insieme di segni di interpunzione, come lo smile :-) , in parte mutuate da altre culture, che sostituiscono in modo giocoso tutto quell’insieme di toni di voce e movimenti del corpo che accompagnando il dialogo servono ad esplicitare l’umore e le intenzioni del parlante.

Capitalismo ludico
Come abbiamo visto, il gioco, quello più colorato e infantile, è diventato prodotto: parliamo di Pokémon Go e di altre applicazioni per smartphone, certo, ma anche del design degli oggetti di uso comune, scelti per le loro forme che rimandano ad un immaginario frivolo e ludico. Così come i bambini sono diventati, tra gli anni ’80 e ’90, target privilegiato di una branca di marketing, anche l’adulto ormai tende a selezionare i prodotti con una mentalità di matrice infantile, dal gadget ai video condivisi con gli amici sui social network, in quella che Bartezzaghi definisce senza tanti giri di parole “voglia di essere in un villaggio turistico”.

Call of Duty e guerra santa
Quella del gioco ricorsivo è diventata un’inquietudine dell’ultimo decennio: la paura che il giocatore immerso in un percorso ludico che non ha fine smetta di riconoscere il confine tra il gioco e la realtà fuori da esso. Uno scenario del genere è temuto dai detrattori più feroci della realtà aumentata e non è un segreto che Daesh addestri i suoi militanti con Call of Duty, popolarissimo videogame a tematica bellica, e che gestisca parte delle sue comunicazioni attraverso la chat della Playstation, difficilmente rintracciabile.
Il timore suscitato dalla simulazione e dalla realtà aumentata è però duplice: come il gioco può uscire dalla consolle e irrompere nella realtà, anche la realtà stessa può uscire “dagli schermi e dai monitor da cui siamo ormai abituati a guardarla”.

Homo ludens
Non è tuttavia necessario scomodare la nostra contemporaneità per trovare un fondamento al discorso sul ludico: è il 1939 quando Johan Huzinga pubblica Homo ludens, in cui riflette sulla presenza del gioco in ogni aspetto della cultura umana. La cultura stessa, per manifestarsi, ha bisogno di un movimento ludico, nell’arte così come nel sacro. Se il gioco è entrato a pieno diritto nelle scienze umane, però, lo dobbiamo al sociologo francese Roger Caillois, che riconosce come elemento distintivo dell’umano l’immagine altra che questo interpone tra sé e il proprio istinto, quella possibilità, dunque di ricostruire il reale – di giocare con esso – che rende l’essere umano tale e, per questo, fallibile.

La fine dei giochi
Bartezzaghi tocca dunque con La ludoteca di Babele tutte le possibili definizioni e manifestazioni di quello che chiamiamo “gioco”, andando a indagare le matrici antropologiche della creatività così come i suoi meccanismi più commerciali e infantili.
Una singola narrazione, che abbraccia nel suo discorso il successo del Gratta e vinci e la sua successiva crisi (ma anche il fantomatico Gratta e Fai goal del 1998, per i più nostalgici), così come le compenetrazioni tra storia, gioco e strutture letterarie di cui impavido sperimentatore è il gruppo dell’Oulipo e, primo fra tutti, Raymond Queneau.
Quello che ci troviamo davanti, dunque, è un gioco nel gioco, in cui i confini tra ludico e realtà, tra serio e farsesco, sono sempre più sfocati. Riuscire a ritrovarli è un altro gioco, in cui ancora una volta ci scopriamo immersi.

Stefano Bartezzaghi,
La ludoteca di Babele,
Utet 2016,
210 pp., 14,00 euro

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Matilde Quarti