Diego Agostini, 'La fabbrica dei cattivi'
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Diego Agostini, 'La fabbrica dei cattivi'

Un thriller calato nel lato oscuro del sogno americano, una parabola del rapporto archetipico tra l'uomo e la legge, una drammatica riflessione sul potere del web di costruire e distruggere l'identità personale

"Sventurata la terra che ha bisogno di eroi". La celebre sentenza che Bertolt Brecht mise in bocca a Galileo aleggia in modo sinistro su La fabbrica dei cattivi, thriller psicologico costruito da Diego Agostini come un diario, lucido e penetrante specie nello sguardo "dentro" l'inconscio del protagonista. Una storia capace di aprire dolorose piaghe che dal sistema della giustizia americana si propagano a incrinare altre certezze. Bene e male, giusto e sbagliato, individuo e società, libertà e sicurezza: che succede se i concetti chiave alla base del vivere civile entrano nell'offuscato tunnel del relativo?

Un giorno qualunque di un'estate qualunque l'imprevisto piomba nella vita di una famiglia "normalmente" felice, annunciandosi con un temporale tropicale. Come la vita stessa, diceva Jung, discende da fonti sia limpide sia torbide, così l'acqua fa da simbolico detonatore di una storia che si intorbida pagina dopo pagina. Alex e Mara sono innamorati della Florida e delle sue spiagge, dove tornano in vacanza tutti gli anni con i figli, ritrovando amici e consuetudini. Di più: per loro l'America è casa, e quello americano un modus vivendi condivisibile e rassicurante.

La pioggia sorprende la famiglia in spiaggia costringendola a una sosta in un centro commerciale per acquistare una maglietta asciutta. La piccola Giulia intanto si è addormentata. Alex e Mara la lasciano per un attimo sola nell'auto parcheggiata all'ombra. Ma bastano pochi minuti, forse appena dieci in base alle leggi della Florida, per essere accusati di abbandono di minore. Inizia così una terribile discesa agli inferi, un pugno nello stomaco cui gli addominali del narratore reagiscono facendo appello all'intera gamma dei meccanismi di difesa: negazione, rimozione, proiezione, sublimazione, annullamento, regressione. L'angoscia raggiunge il suo acme soggiacendo infine a un dolore sordo, perfino scontato. Come quando uno choc ti fa consapevole che nulla sarà mai più come prima.

Curioso come in questo romanzo l'effetto di verosimiglianza passi attraverso la stereotipizzazione dei personaggi - le icone della giustizia americana: lo sceriffo, il detective, il secondino, l'avvocato - e delle azioni (l'interrogatorio, il calcio alla portiera, lo scatto delle manette, i riti della cella). Eppure il trucco funziona. Il primo, brutale trauma del protagonista è proprio quello di trovarsi di fronte a una grottesca rappresentazione. Troppo simile al set di un film per essere vero. Ma il Grande fratello, 1984 e Truman Show sono parte integrante della trama in qualità di rifugi cognitivi della psiche di Alex, assediata dai pensieri paranoici.

Insomma la plausibilità del dramma comincia presto ad apparire secondaria, travolta da una narrazione incalzante che gioca su un triplo registro: da un lato la prevedibile brutalità dei fatti, dall'altro le reazioni inconsce di fronte all'angoscia della separazione, alla paura dell'ignoto, alla perdita della dignità, al processo di internalizzazione della violenza repressiva. Terzo, i grandi interrogativi che esplodono come dinamite: non è mostruosa una regolamentazione sociale affidata a motivazioni di ordine "naturalistico" come l'idea dell'egoismo connaturato all'uomo? non è mostruosa una società dove gli esseri umani sono incasellati in categorie? può la libertà essere qualcosa da comprare?

"Davanti alla legge c'è un guardiano". Così inizia la celebre parabola kafkiana cui è debitrice La fabbrica dei cattivi, angosciante variazione sul tema della colpa & condanna aggiornata al XXI secolo. La spersonalizzazione dell'individuo davanti all'istituzione, lo statuto ontologico della colpa, la condizione esistenziale di straniero in patria. Ecco la logica paradossale della società borghese: non solo il sistema non riesce a disincentivare il crimine, ma è la sua stessa soluzione ad alimentare il problema. Il County Justice Complex fabbrica criminali per garantire al paese l'efficienza dei suoi sistemi di sicurezza, cioè la sua sopravvivenza. Delinquenti e polizia, legati da una simbolica catena, condividono il medesimo destino di ripetizione.

Ma l'aspetto più drammatico di questa rilettura contemporanea dell'apologo kafkiano è il passaggio epocale dal senso di colpa (metaforico) alla violazione (reale) dell'identità. Nel romanzo di Agostini sono la Tv e il web a fabbricare il vero colpevole, indifferenti all'inaccessibilità del Processo, disinteressati all'esistenza stessa di un Processo. Il paradosso kafkiano è fra noi. È realtà. Ci sono infatti due sistemi con cui è impossibile battersi, conclude l'avvocato di Alex: "quello della polizia e quello dei media". La legge protegge la libertà di pensiero e di stampa, in nome della quale la calunnia si diffonde cristallizzando la condanna, senza possibilità di controargomentazione. Il web viene usato come forma di controllo della reputazione di una persona. Una reputazione infangata impedisce di avere una posizione sociale.

Davanti al tribunale del web ogni Joseph K. fra noi soggiace, impotente, sperando di non incappare nell'Errore. Se la Legge di Kafka era un'entità muta e incomprensibile governata da potenze misteriose, la Legge del web è altrettanto sfuggente ma, all'opposto, opera con la logica della riproduzione seriale e senza controllo. Qualunque cosa accadrà "dopo", nel frattempo sei colpevole. Dove l'immagine è tutto, nessuno può ottenere giustizia.

Diego Agostini
La fabbrica dei cattivi
Giunti
284 pp., 12 euro

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Michele Lauro