Vita, coscienza e gelosia del Signor Ettore S., impiegato
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Vita, coscienza e gelosia del Signor Ettore S., impiegato

La mattina del 28 settembre 1880, un giovanotto di 19 anni «alto, magro, con capelli neri corvini, dalla bella voce limpida e vellutata, semplice nel vestire, di umore molto vivace», saliva le scale di un disadorno edificio attiguo al massiccio …Leggi tutto

La mattina del 28 settembre 1880, un giovanotto di 19 anni «alto, magro, con capelli neri corvini, dalla bella voce limpida e vellutata, semplice nel vestire, di umore molto vivace», saliva le scale di un disadorno edificio attiguo al massiccio Tergesteo, simbolo del capitalismo commerciale triestino, dove, al secondo piano, aveva sede la filiale della Unionbank di Vienna.

A nulla erano valsi gli annunci sul Cittadino, nel quale domandava un posto qualsiasi «per un giovane che conosce le lingue»: questo posto di impiegato alla corrispondenza l’ha trovato su raccomandazione, e se lo terrà (lui il posto e il posto lui) per quasi 20 anni. Unica consolazione, tra le angherie, i rimproveri e la miseria della paga, l’ascolto della musica, l’opera, un po’ di teatro, e i libri di Schopenhauer. Fuma circa 50 sigarette al giorno. Con l’audacia dei timidi, si propone a qualche giornale cittadino per la scrittura di brevi articoli. Nel 1892 muore il padre, il cui cadavere vestito «in modo minaccioso» lo impressiona e lo maldispone verso la famiglia.

Il giorno stesso, sua cugina Livia appena uscita di convento viene a porgere le sue condoglianze. Per 3 anni frequenterà casa loro come insegnante di francese della nipotina, figlia della sorella: gli unici scambi tra i due, lui 31 anni lei 18, avvengono al tavolo di cucina, dato che lui a pranzo torna a casa. Sarà solo in occasione della morte della mamma, avvenuta il 4 ottobre 1895 alle ore 4 e 7 minuti, che per la prima volta sentirà il vero suono della sua voce: la ragazza infatti, vedendolo prostrato ai piedi del letto, gli offre un bicchierino di marsala.

«Hai una voce strana, tu. Immatura! Grezza! Vi sono dentro dei suoni strani che io come tante altre cose tue non avevo mai osservate. Cara mia, è ora che una fidanzata abbia un’altra voce. Non si può mica conservare una voce che somiglia a quella di una bambina».

Le chiede di sposarlo, ma la famiglia di lei, cattolica, si oppone. Rinuncerebbe lui al suo essere un «ebreo ateo»? Non sanno nemmeno quale delle due cose sia la peggiore. Lui chiede alla banca di essere trasferito a Vienna, per scrivere, leggere i giornali, staccarsi dalla torbida vita da inetto riservatagli da Trieste. Il viaggio non avverrà, perché nel frattempo ha promesso di battezzarsi e Livia ha accettato il fidanzamento, regalandogli un album con citazioni di poeti tedeschi. Su questo lui scriverà:

«Il primo bacio te lo diedi con la freddezza con la quale avrei apposto il mio nome a un contratto; il secondo con un’enorme curiosità di analizzare me e te e viceversa non analizzai e non compresi nulla perché c’era ancora qualche cosa di timido in me che m’agghiacciava; al terzo e ai seguenti sentii fra le mie braccia la dolce fanciulla che avevo ricercata, il desiderio del mio residuo di gioventù. Adesso poi capisco la cosa sempre meno».

La chiama putela (fanciulla o bambola), mostra, capra e bonbon. Le porta ogni giorno in bicicletta il caffè col ghiaccio, lo bevono mentre lei gli legge Goethe. È affetto da una patologica tendenza al disastro: vede ombre dappertutto, sente di stare per perderla, è geloso, si sente un inetto e un miserabile. Mentre le dice di stargli lontano, si interroga costantemente sul mistero di lei. Da qualche parte scrive:

«È bionda non v’è dubbio ma però ad onta della faccia bianca e degli occhi verdi si potrebbe credere ch’ella avrebbe sopportato benissimo di nascere bruna e non per ciò sarebbe stata meno Livia né meno nata per Schmitz. Donde tutti quei capelli che non parvero destinati a quella testina fine? Talvolta tutta quella testolina né è squilibrata come una pagoda. Donde quella voce di contralto? Buona, profonda, minacciosa».

Accumula ostacoli tra di loro per vedere se lei è capace di eliminarli.

«Io pur amandoti e desiderandoti piango come una sventura il fato che mi sta per legare a te».

Si sposano.

Nel frattempo ha scritto un romanzo, che va male, e ne ha preparato un altro che non riesce a piazzare. Viene assunto nella ditta del padre di lei, che produce vernici per navi. In una lettera a un grande poeta italiano, venti anni dopo, si definirà un «pittore sottomarino».

Veste sempre di nero. Il lunedì ha sempre mal di testa.

Alla nascita della loro prima figlia, la moglie su consiglio medico decide di recarsi alle terme di Salsomaggiore. Vedendo che lei mette abiti eleganti e gioielli in valigia si mette a gridarle le peggiori insolenze. Lei parte. In una lettera gli scrive «Vieni…. Vieni… ma resta là». Lui si dispera. Quando torna, gliela fa pagare, chiudendola in un in una gabbia psicologica e fisica in merito alla quale nel Diario confessa: «Chissà che in avvenire se mai capitasse il dubbio che tu fossi in procinto d’allontanarti da me anche di una sola linea, non mi venga il desiderio di trarti di nuovo vicina o almeno di sentirti vicina, di lusingarmi d’averti vicina, facendoti piangere. Non esiste relazione più intima di quella che corre fra chi soffre e chi fa soffrire».

Quando lei è lontana, per volere di lui, soffre e gode al pensiero che lei indossi gli abiti che con lui non portava «penso anche con ira ineffabile a quei stivaletti gialli che portasti tanto di rado, o mai accanto a me…». Il suo cervello ribolle. Un giorno mentre sta leggendo una lettera di lei per strada passa un uomo. Lui gli corre dietro con l’intenzione di sfidarlo a duello. Ma avvicinatolo non ne ha il coraggio. Alla fine si scambiano i biglietti da visita. Assume bromuro. Scrive forsennatamente, toccando il fondo del proprio limo interiore. Il martirio di Livia nel quadro di questo rapporto sadomasochistico tocca il limite quando lui le prospetta l’eventualità di un tradimento:

«Mi parve che sarebbe stata una bellissima vendetta, un vero sollievo da tanto dolore e da tanta bile, di sfogare i miei desideri già allora molto accumulati su un’altra donna. Non ne feci nulla solo per ripugnanza. E non mica per timore di offenderti o di farti male perché sai quando sono pieno di livore a queste piccolezze non ci abbado».

Al protagonista del romanzo che sta scrivendo fa dire queste parole, che ancora vi si trovano:

«Mi colse allora un’altra piccola malattia da cui non dovevo più guarire: la paura di invecchiare e soprattutto di morire. Io credo che abbia avuto origine da una speciale forma di gelosia. (…). Finché ero vivo, certamente Augusta non m’avrebbe tradito, ma mi figuravo che non appena morto e sepolto, dopo di aver provveduto acché la mia tomba fosse tenuta in pieno ordine e mi fossero dette le Messe necessarie, subito essa s sarebbe guardata d’intorno per darmi il successore ch’essa avrebbe circondato del medesimo mondo sano e regolato che ora beava me».

Più volte, chiedendole in cambio baci, promette di smettere di fumare, unico espediente di cenerizzazione del mondo e delle sue rane – così chiama i dubbi insistenti che sono la sua tortura. Di solito, lo annuncia alle 4 e 7 minuti della notte.

Comincia a leggere Freud per capirci qualcosa. Nel 1906 si iscrive a un corso di inglese, dove conosce un tormentato scrittore irlandese che vede in lui un «ingiustamente ignorato».

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Nel frattempo, conosce anche un grande poeta italiano che lo chiama Maestro e lo aiuterà ad affermarsi, prima con articoli su riviste letterarie, poi presso le case editrici.

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Nel 1926 è ormai scoppiato il suo caso. Tra chi lo giudica cervellotico, macchinoso, poco italiano, psicanalizzante, incomprensibile, c’è chi tardivamente ne riconosce la grandezza. Lui è sopraffatto da questo inaspettato successo. Soffre di ipertensione e enfisema polmonare.

Nel 1928 si reca con la moglie e il nipotino Paolo, di 7 anni, alle terme di Bormio. La sera prima di ripartire per Trieste dice a Livia «Dopo tutto, posso morire perché sono stato assai felice». La mattina dopo, quando lei va ad avvisarlo che la macchina è pronta, sta scrivendo alcune pagine del suo nuovo romanzo: tronca a metà la frase, addirittura la parola, e si prepara. Piove. Chiede all’autista di andare piano e di fare attenzione. Verso Treviso, si fermano a mangiare. Paolo prende la cartina e esclama «Guarda nonna, questa carta finisce a Motta di Livenza!». Ripartono. Queste sono le parole di Livia:

«Passato il secondo ponte sulla Livenza a Motta, all’improvviso la macchina sbandò verso destra. Per rimetterla nel mezzo l’autista sterzò bruscamente verso sinistra. Le ruote posteriori non fecero più presa sul terreno scivoloso, e la macchina, procedendo a zig zag, andò a sbattere violentemente contro un albero. Udii Ettore gridare».

In ospedale, alle 15 in punto il suo nome, seguito dalle parole «di anni 67, professione industriale, luogo di nascita Trieste, luogo di residenza Trieste» è segnato sul registro clinico. Diagnosi: frattura del femore sinistro. Ai familiari dice «Morire è dunque questo? Ma è facile, è molto facile», e chiede loro l’ultima sigaretta.

 

Bibiografia
Carteggio
La coscienza di un borghese triestino

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Daniela Ranieri

Daniela Ranieri vive a  Roma, anche se si domanda perché ciò dovrebbe avere importanza in questa sede. Ha fatto reportage e documentari per la tv. Ha fatto anche la content manager, per dire. Vende una Olivetti del '79, quasi  nuova. Crede che prendere la carnitina senza allenarsi faccia bene uguale. Ha pubblicato il pamphlet satirico "Aristodem. Discorso sui nuovi radical chic" e il romanzo "Tutto cospira a tacere di noi" (entrambi Ponte alle Grazie) 

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