La voluttà di servire: perché ci sottomettiamo a un tiranno
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La voluttà di servire: perché ci sottomettiamo a un tiranno

L’altro giorno, cercando nei Saggi la parte in cui Montaigne parla dei calcoli renali, per non correre il rischio di innamorarmi di nuovo e disperatamente di questo signore spiritoso e distaccato (uno dei miei amori impossibili), mi sono andata …Leggi tutto

L’altro giorno, cercando nei Saggi la parte in cui Montaigne parla dei calcoli renali, per non correre il rischio di innamorarmi di nuovo e disperatamente di questo signore spiritoso e distaccato (uno dei miei amori impossibili), mi sono andata a rileggere il capitolo XXVIII, Dell’amicizia. Perché è qui che ogni volta Montaigne ha la gentilezza di deludermi.

Vi accade questo: dopo aver tracciato una opaca metafora di poche righe che riguarda i pittori e la loro tendenza a mettere il loro quadro migliore al centro della parete più spoglia, dice di aver scritto i Saggi come cornice a un quadro più largo e composito, opera di un suo amico, il più grande, forse, che abbia mai avuto: Etienne de la Boétie. Montaigne lo conobbe nel 1559,  lui aveva 26 anni e Etienne 29, ed era nel Parlamento di Bordeaux da quando ne aveva 23 (Montaigne ci era entrato a 24 anni).

La loro amicizia fu tale che quando nel 1563 Etienne contrae la peste, lui lo assiste fino alla fine, in diciotto giorni di penosa agonia, dopo la quale Michel, come scrisse al padre, si trascina per mesi «languente». E in effetti, più avanti, spende parole di magnifico ardore per raccontare il loro incontro.

«Se mi si chiede di dire perché l’amavo, sento che questo non si può esprimere che rispondendo: “Perché era lui; perché ero io“».

Descrive così il sentimento che lo legò a lui: «una non so quale quintessenza di tutta quella mescolanza che, afferrata tutta quanta la mia volontà, la condusse a immergersi e perdersi nella sua; che, afferrata tutta quanta la sua volontà, la condusse a immergersi e perdersi nella mia, con ugual desiderio, uguale slancio».

Eppure, nel momento in cui lo ha presentato, ha sottolineato che Etienne ha scritto un solo saggio, «fine e succoso», «nella sua prima giovinezza, in onore della libertà, contro i tiranni». Però, si affretta a precisare, non è «il meglio che avrebbe potuto fare»; a dirla tutta, insiste, è per il tramite di quel libercolo e della sua luminosa fama che lo ha cercato e conosciuto, ma tuttavia, chiarisce, si può dire che «gli sfuggì dalla penna», e può essere considerato poco più che un esercizio di stile, una prova di retorica.

Il libro si chiama Discorso sulla servitù volontaria, e fu proprio Montaigne a curarne il destino dopo la morte dell’autore.

Ma cos’era, e di che parlava, se i Saggi di Montaigne possono esserne considerati «la cornice»? Cosa contiene se Clastres parlò di Etienne come di un «Rimbaud del pensiero»? E perché abbiamo impressione che Montaigne stia approfittando di quel caldo legame per censurarlo e diminuirlo?

Se pensiamo che domande come «perché ci sottomettiamo a un capo? Perché un tiranno prospera, pur essendo ingiusto, letale e, a volte, e peggio, mediocre? E cosa possiamo fare per liberarcene?» non siano sempre attuali, forse non abbiamo la radicalità della ragione dalla nostra parte, oppure siamo Montaigne. In ogni caso, ci converrà leggere.

Etienne ci comunica subito il suo stupore, fratello dello sdegno: come è possibile che l’essere umano che vive in società dia per scontato come proprio habitat naturale il dominio di cui è vittima? È la meraviglia il primo sentimento di fronte all’assurdo stato delle cose: l’uomo vuole servire. Sente in sé la volontà e, peggio, la voluttà di servire. E non è nemmeno comodo: per continuare a servire, deve impegnarsi, mettere in atto una serie di strategie, perché basterebbe rifiutarsi, senza nessuno sforzo, per vedere nel potente di turno l’uomo nudo. Perché è pacifico che lui non ha alcun potere che quello che noi gli diamo. Le bestie, pure, quando vengono soggiogate si ribellano, o quantomeno danno segni di infelicità. No, dice lui: la volontà di servire è tenace, testarda.

Ma da cosa deriva? Fondamentalmente, dall’ignoranza: quando non si sa niente, non si soffre niente. Poi, dalla «coustume», che non è semplicemente l’abitudine: è un misto di consuetudine storico-tradizionale e assuefazione psicologica, una sedia di chiodi ma comoda; e «i medici consigliano di non toccare le piaghe incurabili». Poi, dalle elargizioni: bordelli, circo, intrattenimenti, distrazioni, che il tiranno ci somministra; poi, ancora, dai miracoli, cioè dalla religione, che collabora da sempre, sottilmente o crassamente e spesso tutte e due le cose insieme, coi domini più biechi.

Ma la molla e il segreto della dominazione risiedono in altro, e lui è il primo a dirlo chiaro e tondo: nel fatto che il tiranno fa sì che ciascuno dei suoi sudditi sia «tirannello» di un altro. Ciascuno è così interessato a mantenere oliato il dominio, perché solo sotto il giogo di un superiore ha diritto alla sua piccola quota di potere su un inferiore. È su questa piramide di abuso che si regge il potere: in questo, davvero, «la tirannia è democratica». Insomma, «il dominio si trasmette attraverso i dominati», come scriverà Adorno quattro secoli dopo. E dimenticare la libertà è facile perché in cambio si guadagna la servitù, simulacro della sicurezza: una macchina micidiale che Freud scoprirà ne Il disagio della civiltà, nel 1929.

Siamo noi a difendere il «mascalzone» che vuole sottometterci, noi e non le armi, non gli eserciti: ha forse chiunque un potere che non sia il nostro?  Basterebbe che usassimo quel poco di ragione che abbiamo tutti, dice nel passo più antimachiavellico del Discorso, perché «noi ci si riconosca scambievolmente tutti come compagni o meglio fratelli».

Ma la stupefacente e radicale novità del discorso di la Boétie, la sua inattualità sempre attuale, è data da questo passo, leggendo il quale sarà chiaro perché Montaigne vuole che consideriamo i Saggi come sua cornice e insieme sua confutazione: in esso è spiegato limpidamente il funzionamento quasi meccanico, logico, del dominio, il fulcro e il nucleo della sua coazione a ripetere, in un disvelamento spietato della natura sociale di ciascuno di noi.

«Gli arcieri vietano l’ingresso al palazzo a chi è mal vestito e privo di mezzi, non già a individui ben armati e intraprendenti. (…) non sono le armi che difendono il tiranno: non lo si crederà subito, ma senza dubbio è così. Sono sempre quattro o cinque che mantengono il tiranno; quattro o cinque che gli tengono in schiavitù tutto il paese; è sempre stato così: cinque o sei individui sono ascoltati dal tiranno, o perché si sono fatti avanti da soli, o perché sono stati chiamati come complici delle sue crudeltà, compagni dei suoi piaceri, ruffiani delle sue dissolutezze e soci delle sue ruberie. (…) quei sei hanno poi sotto di loro altri seicento approfittatori, che si comportano nei loro riguardi così come essi fanno col tiranno. Quei seicento ne hanno sotto di loro seimila cui fanno fare carriera, ai quali fanno avere il governo delle province o il controllo del denaro (…). Dopo costoro, ne viene una lunga schiera (…) non sono seimila, ma centomila, ma milioni che grazie a questa corda sono attaccati al tiranno, e si mantengono a essa, come secondo omero Giove si vanta di poter tirare a sé tutti gli dei dando uno strattone a una catena».

Un temperamento libero come quello di Montaigne, forse, non poteva tollerare l’assunto – e insieme la conclusione – che gli uomini nascono servi, che ogni scelta è cristallizzata in questa tenaglia micidiale, e che l’arbitrio non esiste se non come anello di una catena di soprusi. La verità, in definitiva, che il problema sono i servi, non i tiranni.

Ma è proprio perché Montaigne conosceva questa verità che ha voluto fare di più: sottraendo il Discorso alla guerra tra fazioni e alla strumentalizzazione dei contemporanei che volevano farne una volgare istigazione alla ribellione valevole per tutte le tramontane, anche le più reazionarie, ha inteso liberarlo dal Terrore conseguente a ogni uccisione del tiranno. Con la premessa fondamentale che proprio esso fu il tramite della loro immortale amicizia, lo pone il più lontano possibile dall’attualità immediata basata sull’iterazione del “sempre uguale”, fin nelle nostre mani di posteri, perché ne facciamo lo specchio che rimanda il nostro volto insieme a quello degli altri.

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Daniela Ranieri

Daniela Ranieri vive a  Roma, anche se si domanda perché ciò dovrebbe avere importanza in questa sede. Ha fatto reportage e documentari per la tv. Ha fatto anche la content manager, per dire. Vende una Olivetti del '79, quasi  nuova. Crede che prendere la carnitina senza allenarsi faccia bene uguale. Ha pubblicato il pamphlet satirico "Aristodem. Discorso sui nuovi radical chic" e il romanzo "Tutto cospira a tacere di noi" (entrambi Ponte alle Grazie) 

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