Elogio dei selvatici e lode della prigione: per Aldo Busi
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Elogio dei selvatici e lode della prigione: per Aldo Busi

Uno dei momenti più belli dell’intervista di ieri sera ad Aldo Busi (nella trasmissione In Onda) è stato quando ha detto di non avere, né volere, amici, amanti, fidanzati; di usare la pornografia come strategia omeopatica per tenersi lontano da …Leggi tutto

Uno dei momenti più belli dell’intervista di ieri sera ad Aldo Busi (nella trasmissione InOnda) è stato quando ha detto di non avere, né volere, amici, amanti, fidanzati; di usare la pornografia come strategia omeopatica per tenersi lontano da ogni fraintendimento sentimentale del desiderio; di tenere in alta considerazione il sesso coniugale, perché comodo, e per nulla avventuroso.

Di queste, la parte che mi scandalizza cioè che mi piace di più è la confessione di non avere amici. Chi ha il coraggio di dire una cosa del genere? Sotto le feste, poi, quando tutti ci sforziamo di sembrare integratissimi, regalanti, accettanti, invitati, ospiti in tutti e due i sensi della parola, attivi nel riposo e pronti a divertirci nello squallore del comandato pragma dispensatore di fetido benvolersi di fine d’anno. Per quanto mi riguarda, il mondo si divide in chi crede che il 21 dicembre finirà il mondo, e in chi lo spera.

La solitudine è un tabù senza l’onore che l’umana cretineria assegna ai comportamenti così-orrendamente-detti trasgressivi; è un groppo in gola del corpo sociale, una condizione che si associa ai vecchi soli in attesa del fantasma dei propri Natali passati e ancorati alla sedia dal peso del salvavita Beghelli. Se non fosse una contraddizione – e una controcontraddizione – in termini, direi: «solitari di tutto il mondo, uniamoci! Anzi no».

«No,  non  sono  comicamente  Alceste  le  Misanthrope,  sono, a  intervalli, fobantropo, ho paura dell’uomo, come dei topi e delle zanzare, per il danno e il fastidio di cui è produttore inesausto», dice Morselli in Dissipatio  H.G. Un mondo finalmente creato a immagine del proprio soliloquio è difficile da pensare, figuriamoci da creare.

Bisogna plasmarsi la propria palude definitiva, a forza di strattoni all’umano genere. Fare come Benvenuto Cellini, che manierista nell’arte e insieme irregolare nella persona, secondo il connubio che il Medioevo inaugura nell’artista fuoriuscito dall’egida corporativa e ambiguamente legato alla prassi mecenatesca, si mette a fare il matto, e ammazza, e mena, e picchia a sangue le donne degli altri che tiene in piedi nude per ore al fine di farne una figuretta in stagno.

«Io fo qui dua diverse vendette: l’una per esser moglie: queste non son corna vane, come eran le sua quando era a me puttana»

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Ho simpatia solo per questi capricciosi caratteracci che passano la vita a combattere un nemico, un Bandinelli qualsiasi, ben sapendo che non si tratta di quello reale. Mentre Bandinelli e Vasari riflettevano la volontà autocratica di Cosimo I de’ Medici alla corte di Firenze, lui, Cellini, reduce da Parigi dove aveva realizzato saliere e minutaglie per Francesco I, si mette a lavorare a una statua del Perseo per 9 anni, magnificando al contempo le sue doti (morali perciò fisiche: la fattura del polso, l’ampiezza del torace, i suoi illustri natali che gli hanno dato sì gentili tratti).

È certo di una prossima consacrazione che non avverà mai. A 30 anni aveva ucciso l’assassino di suo fratello, ricevendo solo un blando rimbrotto da Papa Clemente VII, alla cui morte succederà Paolo III il cui figlio, Pier Luigi Farnese, lo fa imprigionare con l’accusa di aver sottratto l’argenteria di Castel Sant’Angelo. In prigione, «in una stanza oscurissima piena di tarantole e di molti vermi velenosi» ha visioni mistiche; soffre per il modo in cui gli crescono le unghie, che gli si piegano dolorosamente. Scrive un elogio della prigionia. Si getta ai piedi di un invisibile angelo.

Evade, si rompe una gamba; scappando verso Borgo Pio, viene attaccato dai cani; ha intenzione di chiedere aiuto ad alcuni «amici» che ne avevano parlato bene a Firenze, ma viene riconosciuto da un servitore del cardinal Cornaro che prima lo fa medicare da un cerusico a cui spruzza in faccia «grande furor di sangue» da una ferita aperta, poi lo fa arrestare e lo riconsegna al Papa. Viene rinchiuso di nuovo, e approfittando della schizofrenia di un carceriere che si credeva un pipistrello riesce a fuggire di nuovo. Fa sedute negromantiche al Colosseo, ruba, dissipa, mente.

Tra figli nati e morti e cambi compulsivi di testamento approda alla corte medicea, coacervo di tutte le ossessioni dettate nella Vita. Il Perseo, pensato come simbolo del potere ducale che annienta il mostro della sovversione, da posizionare nella Loggia di Piazza della Signoria dove invece la Giuditta di Donatello era l’allegoria della rivolta popolare, raggruma tutte la nevrosi ossessiva di Cellini. La sua fusione laboriosissima gli procura febbri feroci dovute all’esalazione di polveri e gas; il sangue sfilacciato che pende dalla testa di Medusa gli costa la vista e un paio di dita. Perché Cellini è un orafo, che mette occhi e dita di artigiano nella costruzione di una statua di quelle dimensioni, e raduna nel suo furore creativo la minuziosità del minimo e del particolare al servizio di una grande massa di bronzo che esprima magniloquente il potere.

Termina il suo incantamento strappandosi allo sguardo della Medusa rivolto verso il basso, dove siamo tutti, solo innalzandosi, e frugandole dall’alto i capelli di serpi. «Il mattino del 27 aprile 1554 il monumento viene scoperto e Cosimo I si limita a osservare da una finestra di palazzo Vecchio quello che l’autore definisce un trionfo». Cellini non si capacita. Comincia a scrivere lettere forsennate, in cui non ce la fa a contenere il proprio narcisismo megalomanese il Papa mi fa questo scellerato torto, io liberamente lo perdono», «io essendo adirato con Mantova»); chiede un periodo di vacanza, ma dopo due giorni ritorna a Firenze e cerca di persuadere il duca a recedere dal suo cattivo umore. Scrive un sonetto in cui attribuisce il disgusto di Cosimo per il suo Perseo al fatto che è un Capricorno mentre lui è un Cancro: segni opposti, inconciliabili.

La Vita, che comincia a scrivere (o meglio a dettare, a un tredicenne) nel 1558 è un dialogo-monologo persuasivo e rancoroso tra lui e Cosimo I che non lo ascolta, e ricorda le lettere dal Ponto di Ovidio. Cellini è un esiliato in patria, senza amici (conoscete l’origine della parola “severo?”), col coltello sempre pronto alla mano, epiche fughe nel cuore della notte, carezze fraintese di donne e potenti, disperati furori e scoppi di devastante ira. «Protervia, rissosità, sodomia»: sul banco d’accusa opacizzano e impietriscono i giudizi morali dove rifulge la chioma gorgonica della grandezza e del dispendio di sé; la nuda integrità folle brilla maestosa nella melma della corruzione papalina.

Al passeggiar nelle strade, chi lo riconosce è per motivi di disdegno, o ne dà segno solo per fregarlo. Perciò Benvenuto Cellini, l’orafo pazzo, rimanda nel mio grafismo mentale ad Aldo Busi. Con altre parole che queste, ma significando queste, si chiedeva anche lui, più o meno:

«sarà anche dovuto al vizio di forma per cui ogni approccio, sia da parte mia sia da parte loro, finisce in un’inculata, ma possibile che qui nessun essere possa mai concepire né un gesto né una parola disinteressata?»: per questo, caro Aldo, per la strada ti farei solo un saluto col mento alla maniera prussiana, anzi: se ti incontrassi in treno cambierei vagone, e tu sai perché.

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Daniela Ranieri

Daniela Ranieri vive a  Roma, anche se si domanda perché ciò dovrebbe avere importanza in questa sede. Ha fatto reportage e documentari per la tv. Ha fatto anche la content manager, per dire. Vende una Olivetti del '79, quasi  nuova. Crede che prendere la carnitina senza allenarsi faccia bene uguale. Ha pubblicato il pamphlet satirico "Aristodem. Discorso sui nuovi radical chic" e il romanzo "Tutto cospira a tacere di noi" (entrambi Ponte alle Grazie) 

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