Brian Eno: "Odio la mistica del remake"
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Brian Eno: "Odio la mistica del remake"

Il più grande errore degli artisti di oggi è "la coazione a ripetere": parola di un mostro sacro della cultura contemporanea

Brian Eno è nell’aria. Non lo si vede quasi mai, ma c’è, con quel piglio da inviato nel futuro che tutto il mondo dell’arte gli riconosce. Inventore della musica elettronica, regista delle carriere di U2, Talking Heads, Coldplay e David Bowie, pioniere della visual art, ideatore di software avveniristici e di app per iPhone, Eno gioca sempre d’anticipo. Anche in aree apparentemente non di sua competenza. Così, quando Lady Gaga si presenta in pubblico coperta solo da bistecche di manzo insanguinate, in realtà, non fa altro che citare una sua mise di 41 anni fa: "Non era male la mia T-shirt di carne. Ai tempi era avanguardia" dice convinto dopo avere presentato Music for great gallery, la colonna sonora della Venaria Reale di Torino.

Mister Eno, per lei che cos’è l’arte?
Ha presente i simulatori che permettono agli astronauti di sperimentare in sicurezza alcuni passaggi complessi delle loro missioni? Per me l’arte è come un simulatore, una forma d’esercizio che gli uomini praticano con successo perché hanno il dono dell’immaginazione. I bambini imparano giocando, gli uomini apprendono attraverso l’arte. Ma la creatività richiede allenamento e pratica quotidiana. Altrimenti ci si arrende alla consuetudine del remake, del sequel, della reunion.

In una parola, il vintage.
La coazione a ripetere è una ossessione del nostro tempo. La musica guarda al vinile e al suo sound antico, il cinema resuscita il bianco e nero, pittori e scultori reinterpretano in vario modo la Pop art. Da un punto di vista commerciale la vintage mania può anche avere un senso. Intrattenere il pubblico con suoni, immagini e forme che hanno un sapore antico è molto rassicurante, ma senza il coraggio della innovazione l’arte muore.

Dall’astratto al concreto: come si concilia il suo istinto alla sperimentazione con le esigenze di marchi globali come U2 e Coldplay? Al mass market non piacciono i cambiamenti radicali.
E a me non piace fare il produttore che asseconda i gruppi che vogliono replicare se stessi. Non lavoro per fare felice il fan club, io spingo tutti verso il cambiamento e le strade inesplorate, ma li avverto: osare può anche voler dire perdere una fetta di pubblico. E questo, mi rendo conto, è esattamente quello che un gruppo come gli U2 vorrebbe evitare. Perché l’istinto di un artista come Bono è fare salire tutti a bordo della sua nave. Anche il quindicenne che ascolta solo musica dance. Comunque, una mediazione fra il mio approccio e il mercato è possibile. Lo dicono le carriere
delle due band che lei ha citato.

A proposito di vintage, come si spiega la beatificazione degli Abba, 20 anni dopo la fine del gruppo?
Negli anni Settanta la cultura pop era troppo snob e pseudorivoluzionaria. Nessuno avrebbe ammesso in pubblico di amarli. Nemmeno io l’ho fatto, eppure ne ero follemente innamorato. Ancora oggi molti, pur apprezzandoli, li definiscono kitsch, una parola che viene usata strumentalmente dai radical chic per mantenere una certa distanza da un fenomeno realmente popolare. Ero pazzo di Fernando, un brano di rara intensità.

Sorprendente: tutti la immaginano perso nella creazione di suoni sperimentali per colonne sonore di mostre, palazzi storici e aeroporti.
Innovazione non è essere incomprensibili ai più. Si può innovare facendo ballare il mondo intero. Ai tempi delle mie prime composizioni per ambienti (Music for airports, ndr) le tastiere elettroniche erano strumenti sofisticati al servizio dell’uomo. Adesso schiacciando un paio di tasti creano da sole 45 minuti di musica. Non è un passo avanti, ma indietro. I fattori di novità nella musica dei prossimi anni saranno il jazz rielaborato da musicisti africani e gli intrecci melodici della musica araba. Ma non solo.

A che cosa si riferisce?
Alla rinascita di una musica suonata da esseri umani con tutte le loro imperfezioni. Una delle cose più interessanti ed emozionanti che ho ascoltato negli ultimi 10 anni è il provino di un gruppo che ha tanta intensità e nessuna tecnica. Il cantante non tiene bene le note, il chitarrista è spesso scordato e il batterista annaspa nel tenere il tempo. Avrebbero tranquillamente potuto correggere le loro imperfezioni con uno dei tanti software che riescono a raddrizzare gli errori e le storpiature. Invece hanno deciso di presentarsi a me nella loro nuda essenzialità. E io li ho trovati meravigliosi, un simbolo vivente della fragilità umana che non ha paura di mostrarsi.

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Gianni Poglio