Stefano Seletti: il design in cucina (dai sottopiatti a Cattelan)
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Stefano Seletti: il design in cucina (dai sottopiatti a Cattelan)

"Più che designer ci sentiamo trasformatori di cose, ci piace prendere una lampada da meccanico e renderla una luce per interni"

Dopo il ritiro dall’agone artistico, per Maurizio Cattelan è arrivata la fase romantica: "Molta della nostra infanzia, in fondo, è conservata non in fotografie, ma in certe marmellate, angoli di casa, odori di poltrone, tazze e tovaglie…" dice, anticipando l’inatteso progetto di arredo casa che presenta al prossimo Salone del mobile di Milano.

L’aut aut per lui era chiaro: diventare un monumento vivente, come Damien Hirst e Jeff Koons, oppure movimentarsi la vita con progetti che si potrebbero dire pop, ma che in realtà sono figli dell’estro momentaneo, nati bevendo una cosetta insieme a quattro amici al bar. Tra i compari di questa nuova vita c’è Stefano Seletti, classe 1970, oggi patron di un’industria famosa per il "design democratico": molti italiani hanno (o hanno posseduto) almeno un oggetto con questo marchio.

"Con Maurizio ci si conosce da anni, ma di lavoro non avevamo mai parlato. Per definire questo progetto non abbiamo neppure steso un contratto" racconta Seletti nel suo ufficio di Cicognara, sulla sponda nord del Po, proprio di fianco alla sede di un’altra storica azienda italiana ormai entrata nell’immaginario collettivo (soprattutto per uno spot): la Pennelli Cinghiale. "Un bel giorno abbiamo pensato che sarebbe stato bello dare nuova vita ad alcuni prodotti che mio padre Romano importava dalla Cina fin dagli anni Settanta: tazze di metallo smaltato, tovaglie di plastica, piatti di ferro. E impreziosirli poi con le fotografie di Toilet paper, la rivista che Maurizio pubblica insieme a Pier Paolo Ferrari. E così è nata l’idea della collezione". Che attende d’essere svelata il prossimo l’11 aprile presso lo Spazio Rossana Orlandi in via Matteo Bandello a Milano, "per poi essere venduta, a partire da agosto, a prezzi popolari: 10 o 15 euro a pezzo, non di più".

È popolare da sempre la filosofia Seletti. Un marchio che ha accompagnato il costume italiano riempiendo le case di una filmografia d’oggetti che profumano di mondo perduto, di madri casalinghe col grembiule e papà coi baffi che fumano nelle Fiat 131. È il 1972 quando Seletti senior parte dalla Bassa padana per i primi viaggi in Cina, epopee lunghe settimane con scali obbligati in Alaska e controlli doganali da guerra fredda. Diventa così l’importatore principale di un mondo di cose che a ricordarle viene malinconia: gli amati (e temuti dai ragazzi più discoli) battipanni di giunco intrecciato, per esempio. I sottopentola in paglia a motivi floreali e i portapane in bambù. Gli strofinacci a nido d’ape e gli zerbini con scritto "Salve"... Un’epopea di import-export che dura fino a quando, nel 2005, stiracchiandosi nel letto, Stefano dà una svolta alla storia aziendale: "Guardo la bottiglietta d’acqua in plastica sul comodino e penso: la voglio rifare così. Di vetro borosilicato, però".

Nasce in un attimo Estetico quotidiano, la nuova generazione (poi copiatissima) dell’invasione Seletti nelle case nazionali: tazzine in porcellana tali e quali a quelle usate dalle macchinette del caffè negli uffici (400 mila pezzi venduti finora); dosatori a forma di bricchi del latte o di confezioni del Vernel. Un successo mondiale a cui ne seguono altri: quello della linea Twd (piatti e tazze con impresse le mappe stradali delle capitali del mondo) o le lettere luminose componibili di Neon art. Le scatole Pantone e il lampadario di carta pressata Egg of Columbus.

Secondo una filosofia che Stefano spiega così: "Più che designer ci sentiamo trasformatori di cose, ci piace prendere una lampada da meccanico e renderla una luce per interni. Un armadietto da palestra e farlo diventare un mobile da salotto. Il tutto a prezzi accessibili. Una battaglia contro il minimalismo, la nostra. E contro la logica delle nicchie e delle serie limitate, che davvero non fa per noi".

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Raffaele Panizza