I falsi profeti del liberismo
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I falsi profeti del liberismo

Dalle inutili guerre stellari di Reagan alla superbolla internet di Greenspan. Politici ed economisti hanno sbagliato ricetta. Ma forse la Lady di ferro...

Si fa presto a dire liberista e a incolpare il malvagio di turno, come per un’imperdonabile mancanza rispetto ai dettami dell’umanità. In effetti ben pochi di coloro che al senso comune dei progressisti paiono colpevoli lo sarebbero davvero. A iniziare da Ronald Reagan, che molto poco meriterebbe per paradosso questo titolo, considerato che per finanziare le sue guerre stellari e fiaccare l’Urss dovette ricorrere a una spesa pubblica immane.

Forse solo la spietatezza virile della signora Margaret Thatcher tra i politici, meriterebbe il titolo di liberista. In effetti schiodò la Gran Bretagna dalle politiche di benessere e di spesa che dagli anni Cinquanta, dai tempi di Harold MacMillan, avevano contagiato pure i suoi colleghi conservatori. Ma pure costoro, fatta fuori lei, tornarono subito al vizio di una spesa statale crescente. Per non dire dei laburisti o di Bill Clinton, certo il più intelligente con Richard Nixon dei presidenti americani del secolo trascorso, e anche però un restauratore dell’egemonia degli Stati Uniti. Ma con misure ben poco liberiste pure lui.

I dollari divennero più abbondanti dei tappi di Coca-Cola e iniziarono tutte le bolle speculative che gonfiarono i capitali in borsa al di là di qualunque ragionevole possibilità di remunerazione. Il che avvenne proprio per la stampa esagerata di moneta statale. Sia per Reagan sia per Clinton, la spesa statale o la stampa di moneta cartacea da parte di un organo il cui vertice è deciso da Washington, come è la Federal Reserve, furono essenziale.

E il liberismo invece dovrebbe significare il contrario: riduzione, e non aumento, della discrezione statale sia nella spesa sia nell’invenzione speculativa. Perché alla luce di quanto avvenuto nel 2008 questo fu la crescita americana: il nutrimento di bolle che permettessero agli Stati Uniti di consumare al massimo senza colmare il loro difetto di risparmio. Ma ecco, caro lettore, che così discorrendo si è arrivati al vero discrimine, ovvero al risparmio eluso, surrogato dalla spesa statale o dalla stampa di moneta: questo proprio non può dirsi liberismo.

Il liberismo è infatti riduzione dello stato, e pertanto proporzione dell’investimento al risparmio. L’opposto di quanto sia Franklin D. Roosevelt con inefficacia, visto che nel 1939 il reddito degli Stati Uniti era inferiore a quello del 1929, sia il comunismo dei russi ieri o dei cinesi oggi perseguono.La Cina non rispetta i diritti individuali, ma neppure può dirsi liberista, se investe la metà del prodotto per decreto statale. Dunque distorce la creazione di un capitale che sempre può essere retribuito, come sta già avvenendo. Insomma l’odio che i progressisti dedicano ai loro avversari certo compiace la loro invidia, ma dovendo badare al senso delle parole è assai mal orientato.

Clinton e il pessimo José Zapatero in Spagna hanno lasciato gonfiare delle bolle speculative. E la Bce come la Fed hanno assecondato un eccesso di investimento, per sopruso statale che non può dirsi liberista. Giacché il liberismo limita la spesa statale e avversa un investimento sproporzionato al risparmio, come quello che Alan Greenspan ha con i mutui americani incentivato. Solo in gioventù, negli anni Cinquanta, quando era membro del circolo individualista di Ayn Rand, fuggita dall’Urss, Greenspan avrebbe potuto chiamarsi liberista.

Erano gli anni in cui biasimava la Fed come un’istituzione perniciosa che stampando moneta aveva aggravato la crisi del ’29 o generato inflazione eccessiva nel primo dopoguerra. Ma poi, nominato da Reagan presidente della stessa, cambiò idea. Si applicò alla stampa di dollari in agire opposto ai suoi ideali giovanili. E quando glielo rinfacciarono lo ammise pure, ma scrisse che tutto era cambiato perché c’era stato un aumento della produttività per via di internet. Altra non verità contestata dai dati e dissolta dalle bolle speculative che scoppiarono una dopo l’altra fino al botto del 2008.

Ecco insomma che a studiarsela coi fatti e non con le ideologie che vengono incollate dall’odio, per rigirarla in maniera da avere sempre ragione, la questione del liberismo deve ammettersi per lo meno più complicata di come l’ignoranza dei commentatori se la rivende. La verità è che il capitalismo, quello americano o quello cinese, è sempre meno liberista e infatti cambia poco che alla fine sia amministrato dai comunisti o da Greenspan o dal texano Bush. Certo c’è stata la liberalizzazione dei mercati, quella sì può dirsi liberista, e però ha indebolito solo alcuni stati, non la Cina e gli Stati Uniti. Ha destrutturato l’Europa che viveva d’industria, ma ha avvantaggiato gli Stati Uniti che vivono di finanza e i comunisti cinesi che agiscono ancora in ossequio al dispotismo della dinastia di Mao.

In altri termini, anche per quello che riguarda il liberismo dei mercati gli eventi confermano l’ambiguità del capitalismo, il suo richiedere l’abuso statale in stampa di banconote. Per non dire poi di John M.Keynes che elogiò nel suo libro i mercantilisti, e anzi in un paragrafo ammise di avere ridetto circa la necessità di dazi e cambi fissi e occupazione quello che già dicevano loro. Ma quanto gli antiliberisti gli sono ora coerenti?

Per Keynes era impensabile una politica di spesa con una parità fissa dei cambi. E nella sua polemica con Winston Churchill ebbe ragione perché il ritorno della sterlina alla parità d’anteguerra fu rovinoso, e nel 1931 esplose mutando il ristagno in depressione. Ma quanti gli danno retta oggi? Com’è pensabile voler fare una politica di crescita, e tenersi l’euro in Italia o Spagna? È il meno keynesiano degli assunti. Eppure con che naturalezza i democratici sinistri difendono l’euro e al contempo vogliono la crescita. Confusione, nutrita dall’ignoranza di cosa sia o noliberismo.

E la libertà dei movimenti di capitale e delle imprese? Quella sì è liberista. Ma persino la libertà dei capitali, di investirli a piacimento in finanza o fabbriche da spostare dove si vuole, è amministrata dagli stati, dai loro giochi di potere, dal Comitato centrale di Pechino o dalla Casa Bianca. Tutto s’è svolto più ambiguo e distorto di quanto le ideologie dei liberisti o degli antiliberisti nella loro ignoranza seguitino ancora a pretendere.

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