Fatti gli europei ora facciamo l'Europa
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Fatti gli europei ora facciamo l'Europa

Mentre si ragiona e si litiga sulla macroregione, un intellettuale dallo sguardo libero e dotto rilancia

di Philippe Daverio

L’Europa in realtà è tutta una questione di punti di vista: cambia secondo lo sguardo che le si dà. Cambia anche secondo il luogo dove ci si trova. Se in Italia si va oltre i 130 all’ora in autostrada, si compie un crimine che serve a rifocillare le casse pubbliche. In Germania si va a velocità libera con le medesime automobili e gli incidenti sono gli stessi o forse anche meno: questa scelta serve a rifocillare le casse dei costruttori automobilistici tedeschi che vendono automobili più sicure e nuove. Così hanno vinto la scommessa dei mercati mondiali. E siamo sempre nella stessa Europa.

L’Europa è a varie velocità, automobilistiche, economiche, bancarie. In Germania e in Francia la protesta giovanile ha generato i partiti verdi transnazionali che in molte delle città amministrano con consapevolezza; in Italia le stesse aree elettorali hanno seguito un Beppe Grillo che le sta spronando a uscire dall’Unione per entrare in una futura comunità mondiale new age che si chiamerà Gaia e dove verranno vietati i partiti politici per essere sostituiti dalla democrazia diretta, quella che già era stata propagandata in Germania nel 1933 da un imbianchino austriaco col suo partito unico. L’Europa per alcuni è un sogno, per altri un’illusione, per altri ancora un incubo. A Palermo se si fuma al ristorante si rischia la multa; a Berlino ci sono ristoranti per fumatori. Che Palermo sia più legalitaria di Berlino? L’Europa per ora sembra essere solo un paniere commerciale legato a una moneta che non a tutti piace. D’altronde per farla economica la si dovrebbe immaginare paritetica e, per consentire le pari opportunità, molti parametri andrebbero unificati: la formazione e l’istruzione, le tasse e i tassi, i rischi d’impresa e la stabilità, il welfare e le pensioni dovrebbero essere analoghi. Eppure, il sogno ha avuto precedenti illustri. Per i greci l’Europa era quella signora che si faceva rapire da un toro e corrispondeva poi alla porzione geografica che stava a occidente delle terre che Alessandro Magno aveva conquistato fino alla Mesopotamia. Era lei la figlia del re di Tiro e Giove in versione taurina la portava a est, cioè sull’isola di Creta. Era allora mediterranea, l’Europa; oggi lo è molto meno. Lo fu ancora per Giulio Cesare che, dopo avere portato i confini di Roma oltre le Alpi nella Gallia, fece il salto verso l’oriente del mare per invaghirsi di Cleopatra e fare un figlio. Lo fu ideologicamente quasi per l’imperatore Adriano, che il Mediterraneo se lo girò in senso antiorario dal Nord Africa al Medio Oriente, vedendo morire il suo amato Antinoo nel Nilo. Fu reinventata, l’Europa, da Carlo Magno, quando ormai l’Oriente s’era fatto musulmano e Costantinopoli era diventata un fossile storico.

Il Sacro romano impero confinava a nord nelle steppe ignote e al sud sulle rive d’un fiumiciattolo, il Chiarone, che oggi ancora segna il confine fra Toscana e Lazio: oltre quel limite valicabile v’era lo Stato del Papa. L’Europa divenne il luogo della cristianità dove san Tommaso il conte meridionale andava a piedi alla Sorbona di Parigi e all’Università di Colonia, scrivendo di notte e insegnando di giorno. L’Europa si stava articolando in tanti pezzettini che divennero stati, dopo l’eredità di Carlo Magno che l’aveva lasciata come un bottino da dividere sul Reno fra i nipotini; si spaccò fra riformati e papalini. Inventò le più cruente fra le guerre possibili, quella dei Trent’anni che ridusse la popolazione della Germania a un suo povero quarto, quelle napoleoniche nel sogno infausto di vedersi rinascere, quelle mondiali sempre fondate su incubi egemonici. Poi si decise di farla, quest’Europa, su basi democratiche ma soprattutto su basi culturali. E a segno della sua rinascita il trattato fu firmato a Roma il 25 marzo 1957, perché lì vi era la duplice sua radice, storica e monoteista, cristiana quanto ebraica.

Oggi l’Europa delle nazioni sembra traballante, quella delle banche incerta, quella delle culture ignota. La questione sta per essere rimessa ancora una volta in discussione. Forse è il caso di rimettersi a discutere l’Europa mista delle culture, nella quale non contano tanto le lingue formate dagli stati quanto siano ancora significativi i dialetti che si articolano attorno a queste lingue, i mille vernacoli comportamentali, le declinazioni culturali, le abitudini. Esiste un’Europa dei grassi alimentari, dell’olio, del burro, dello strutto e del grasso d’oca, una Europa dei formaggi e dei vini. L’unica parola che in tutte le lingue d’Europa è identica è quella che indica il vino, ovviamente per motivi cristiani. Già la parola "orologio" (il logos dell’ora) si differenzia fra la mostra della «montre» (fa vedere), lo sguardo del «watch» (guarda), che ne è l’opposto, e il concetto puro di "Uhr" (l’ora in sé).

Come facciamo allora ad arrivare tutti allo stesso momento, se non imparando gli uni dagli altri? E poi le lingue stesse: pare fosse Federico II di Prussia, polilinguista perfetto, a dire: "Parlo francese con le dame, l’inglese coi mercanti, l’italiano con gli angeli, lo spagnolo con Dio e il tedesco con i miei cavalli".

La prima forza dell’Europa è la sua formidabile complessità culturale, non quella degli stati di ieri ma delle cento regioni che la compongono. In nessuna parte del mondo le differenze sono così marcate. In nessuna parte del mondo si fondano su una radice così fortemente condivisa. L’Europa si salva dalla lugubre prospettiva del governo mondiale di Gaia con Lord Dart Fener, il cattivo di Guerre stellari che lo dirige, solo se rilancia la sua particolarità che è poi particolarità culturale; solo se gli italiani che laureano il 7 per cento dei loro giovani raggiungono i tedeschi che laureano il 21 dei loro; solo se la velocità sarà consentita ovunque con gli stessi rischi; solo se la sua complessità regionale e culturale andrà a superare gli schemi degli stati e delle banche nazionali che l’hanno tenuta troppo spesso ferma.

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