Enrica Pagella: 'Il sonno della politica genera mostre'
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Enrica Pagella: 'Il sonno della politica genera mostre'

La direttrice delle raccolte d’arte antica di Torino propone una nuova formula di museo. Contro la dittatura delle rassegne commerciali e degli assessorati alla Cultura

Nel Museo civico di Palazzo Madama a Torino, fra i capolavori di Antonello da Messina e Defendente Ferrari, si organizzano mostre, conferenze, occasioni comunitarie e iniziative che hanno fatto gridare all’eresia. Come quella di «Madama knit», ovvero gruppi di cittadini (per lo più cittadine) che, come avviene in altri musei statunitensi ed europei, si ritrovano per lavorare a maglia; oppure i matrimoni civili che si celebrano nella Sala del Senato. Agli invitati alla cerimonia si fa omaggio di un biglietto per il museo valido un mese, con una percentuale di ritorni che è all’incirca dell’80 per cento.

Piacciano o no, ecco due idee efficaci per radicare nella memoria dei torinesi un luogo e svelarne la bellezza che contiene, facendo di Palazzo Madama ciò che il celebre Duncan Cameron definiva nel 1971 un museo che è un po’ tempio e un po’ forum: effetto virtuoso di una crisi che, nella scarsità di mezzi economici per la comunicazione e la promozione, è diventata, in questo esempio torinese, «uno stimolo per trovare nuove modalità di rapporto col territorio», come dice la direttrice del museo Enrica Pagella, che nel 2012 ha ricevuto da una giuria internazionale il premio Icom Italia Musei dell’anno come miglior museologa italiana.

Qual è la sfida più importante che aspetta chi guiderà i musei?
I musei devono oggi essere in grado di farsi attraversare dalla domanda di diversi e nuovi tipi di pubblico. Questa è una sfida centrale. Dagli anni 80 gli approcci innovativi sono andati scemando e, paradossalmente, proprio mentre si apriva questa crisi, il pubblico aumentava costantemente. Ma l’unica risposta che è stata data a questa nuova domanda è stata quella delle mostre, non sempre di qualità, spesso stimolata dagli assessorati alla Cultura e sulla quale è fiorito un business che ha progressivamente emarginato le competenze dei musei.

Quali sono stati gli effetti di questa politica?
L’effetto è stato quello di una dolorosa frattura: da una parte i musei, trincerati dietro lo statuto di una grande istituzione culturale; dall’altra il grande pubblico, abbandonato alle mostre come prevalente offerta culturale accessibile. La politica museale, a questo punto, dovrebbe riflettere su come far capire ai visitatori che il museo ha un percorso complesso e che va assaporato poco alla volta: che ci si torna, e poi magari a casa si va sul sito per informarsi e approfondire.

Ma come si fa ad accontentare i diversi tipi di pubblico presenti in una società così diversificata come quella attuale senza che il museo perda rigore?
Penso che i musei debbano cominciare a interrogarsi sull’opera d’arte in un senso più interdisciplinare di quanto non sia stato fatto finora.

Un approccio interdisciplinare farà inorridire i puristi della disciplina.
Dobbiamo porci il problema di guardare alle opere con una freschezza nuova. Non lo sguardo esclusivo della disciplina specialistica, ma una prospettiva che si avvicini semmai all’antropologia. I puristi storcano pure il naso, però sappiano che ciò non significa trascurare i valori estetici.

Può fare un esempio concreto?
Accanto a un’opera che appartiene al Gotico internazionale io non posso limitarmi a inserire strumenti educativi che parlino del Gotico internazionale, perché la domanda del grande pubblico non è «a che corrente artistica appartiene quell’opera?». I visitatori si chiedono, per esempio, «qual è la qualità che rende quest’opera degna di far parte del percorso di un museo?»; oppure «come posso cogliere questa qualità?». Tenendo ben presente che tutto ciò ruota attorno a un bisogno di bellezza, e che una delle questioni fondamentali per i musei è anche come comunicare la bellezza, credo che dentro un museo la storia dell’arte debba servire a dare questo tipo di risposte. Ma devo anche constatare che su questi compiti di mediazione e di socializzazione del sapere non arriva un gran contributo da parte della ricerca universitaria.

In cosa difetta l’università?
In generale, la ricerca universitaria concepisce i musei come strumenti di supporto allo sviluppo della disciplina, in un’ottica spesso molto autoreferenziale. L’opera, come ho detto, dev’essere centrale nella politica di un museo, ma quella stessa opera deve poter esercitare un’attrazione per diversi tipi di pubblico: non solo gli specialisti, ma le famiglie, gli anziani soli, i giovani, le comunità di nuova cittadinanza, e anche il non pubblico, ovvero tutti coloro che mai penserebbero di mettere piede in un museo. Per tutte queste categorie si tratta di individuare nuove vie di accesso e non bisogna dunque scandalizzarsi se il museo si propone anche come luogo di semplice accoglienza, magari affascinante perché autorevole, bello e curato.

(Estratto dell’intervista nel volume di Antonio Carnevale e Stefano Pirovano Scene da un patrimonio, Galaad edizioni, in uscita il 7 marzo)

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