Decentramento dell'arte: idea, chiudiamo i grandi musei
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Decentramento dell'arte: idea, chiudiamo i grandi musei

Ipotesi controcorrente per valorizzare il nostro patrimonio artistico. Con qualche caso di successo

di Giuseppe Frangi

Lens è una cittadina un po’ depressa del nord della Francia. Le miniere di carbone che ne avevano garantito la dura fortuna sono un capitolo chiuso. Così, in mancanza di luoghi di un qualche pregio, il locale ufficio del turismo poteva mettere in catalogo solo visite a luoghi e cimiteri della Grande guerra. Ma da qualche settimana a Lens si è accesa una scintilla: il giorno di Santa Barbara, patrona dei minatori, il Louvre infatti ha aperto qui la sua prima dépendance in territorio francese. Un edificio disegnato dagli architetti giapponesi dello studio Sanaa (premio Pritzker 2010), riempito con fior di capolavori portati da Parigi per confermare la serietà delle intenzioni. Il successo è stato clamoroso, visto che nel primo weekend si sono messi in coda 36 mila visitatori. Non male per una città che ne ha pochi di più.

Se lo ha fatto il Louvre, perché non ci provano anche gli Uffizi o Brera o le Gallerie dell’Accademia, per citare tre musei importanti che vantano depositi ricchissimi? Si potrebbero dare tante risposte, ma una basta: in Italia il decentramento dell’arte è un fatto acquisito. Ed è difficile trovare un angolo di territorio sguarnito di tesori. Insomma, di Lens non ce ne sono. Bastano pochi numeri per rendere l’idea: 4.739 musei e istituzioni similari, 46.025 beni architettonici vincolati, 5.668 beni archeologici immobili. Per documentarli ai turisti appassionati, il Touring club lanciò 100 anni fa l’epica impresa delle Guide rosse. Oggi quei volumi, ovviamente aggiornati, fitti di puntuali descrizioni, riempiono oltre un metro e mezzo di scaffale. In pagine sfiorano le 20 mila (per la precisione 19.443). Il problema è che alcune di quelle pagine sono consumatissime, altre invece restano
quasi intonse.

Ne sa qualcosa Sante Bagnoli, editore, fondatore della Jaca Book e oggi protagonista di un’impresa che non è da meno di quelle delle Guide rosse: una grande collana illustrata che scheda il patrimonio architettonico italiano. "L’Italia è un grande patrimonio diffuso che oggi è marginalizzato da logiche mercantili" sostiene. "La gestione del turismo pretende semplificazione, perché se si articolano troppo gli itinerari e si moltiplicano le opzioni, la gestione per gli operatori si fa più complicata, quindi meno redditizia". Risultato: "Abbiamo distrutto una città come Firenze, travolta da un quotidiano tsunami turistico e da un’incuria sostanziale. Intanto ci siamo dimenticati di centri meravigliosi come Bevagna (Pg), che sono fuori dalle rotte preordinate dalle logiche del mercato turistico".

C’è chi di fronte a questa asimmetria dei flussi turistici ha proposto rimedi radicali. È il caso di Luca Doninelli, che nel suo recente saggio dedicato proprio al caso Firenze propone provocatoriamente di fare emigrare il David di Michelangelo: "Ho scritto che lo manderei a Parigi, a fare da ambasciatore di Firenze. Oggi è diventato paradossalmente causa di degrado, con le folle che attira, eternamente in coda fuori dall’Accademia. Ho pensato che, via lui, chi viene a Firenze finalmente potrà accorgersi che ci sono anche posti meravigliosi come l’Ospedale degli Innocenti o la Basilica di Santo Spirito. Oggi sono deserti e ignorati da tutti. E pensare che da lì è partito il Rinascimento".

Chissà se basterà spegnere il David perché il turismo si accorga di altre meraviglie che punteggiano il territorio fiorentino. Le vere rotte del museo diffuso infatti sono soprattutto fuori porta, per esempio sulla direttrice che da Firenze porta a Pistoia, passando per Poggio a Caiano, dove un po’ dimenticata troneggia la più monumentale villa di Lorenzo il Magnifico, ricca degli affreschi di un quanto mai eclettico Pontormo. Pochi chilometri più in là, a Carmignano, sempre Pontormo, nella parrocchiale ha lasciato quella Visitazione capace di stregare un mago della videoart contemporanea come Bill Viola. A dimostrazione di quanto il museo diffuso sia perfettamente allineato al modello glocal: la sfera locale che riesce ad avere risonanze globali.

Sono capolavori che valgono bene quei 20 chilometri o poco più di auto. Ma come fare perché i turisti se ne convincano? Il segreto è non proporsi da soli. Cioè fare rete, come hanno scelto, con successo, i 40 musei del sistema senese. L’insieme dei tanti, anche se piccoli, fa la forza. Lo conferma l’esperienza piemontese, dove l’abbonamento musei (che garantisce l’accesso a 200 luoghi espositivi in tutta la regione) ha conosciuto una crescita esponenziale, raddoppiando gli abbonati in 4 anni e toccando i 700 mila accessi complessivi. A volte invece si scelgono coordinamenti più leggeri, ma ugualmente efficaci: nel cuore del Veneto è nata per esempio un’Isola dei musei, che tiene legati i luoghi di Antonio Canova con quelli di Andrea Palladio. Chi arriva a Possagno, nel magnifico Museo Canova allestito da Carlo Scarpa, trova il suggerimento di allungare verso Maser, Villa Emo, Asolo. E naturalmente viceversa.

"L’errore che si è fatto spesso è pensare a questi tesori come a delle rendite" spiega Pier Luigi Sacco, docente allo Iulm e oggi alla testa del Comitato per Siena capitale europea della cultura 2019. "Invece bisogna saper innovare, coinvolgere le comunità, usare il volano di internet e dei social media. Alla fine vince non chi pensa di vendere pacchetti turistici, ma chi propone un’esperienza".

Il museo diffuso infatti è ricco e attrattivo anche per ciò che lo circonda, come sottolinea Franco Iseppi, presidente del Touring club. "Sintetizzerei tutto nella categoria del paesaggio. È questa la vera ricchezza italiana. Nel paesaggio ci sta il museo, la chiesa, la piazza, ma anche il contesto, la capacità di un’accoglienza che valorizzi le tipicità, dal ristoro all’albergo. Per questo l’asse tra cultura e agricoltura può davvero essere quello del futuro".

Certo c’è molta strada da fare e le soluzioni migliori a volte le trovi dove non te lo aspetti. Come per esempio nel Ragusano, un territorio che ha saputo rilanciarsi facendo crescere insieme la valorizzazione del patrimonio, sull’onda del riconoscimento Unesco, e la qualità dell’offerta ricettiva. Perché la formula vincente è quella di sapere sposare il bello con il buono, le esigenze dell’occhio e del cuore con quelle del palato e della psiche. Per questo il museo diffuso ha un grande futuro davanti.

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