Arte e provincialismo: povera Italia fuori dal mondo
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Arte e provincialismo: povera Italia fuori dal mondo

Bellocchio non è il solo che, se non vince, si lamenta. Analisi di un vezzo sospeso fra complotto e provincialismo

di Marco Filoni

Non esiste luogo in cui un epicureo di buon senso possa trovarsi meglio che in provincia. Così affermava Karen Blixen: cent’anni fa andò a trovarsi il meglio che il mondo le offriva nella sua Africa. E ancora oggi sono in molti a pensarla come lei, anche qui da noi. Le nostre italiche lande abbondano di epicurei, ma non nel senso di seguaci di Epicuro, sia chiaro; sono gli edonisti piacioni, quelli sorridenti e fieri della loro italianità, questo vessillo gigionesco appuntato bene in mostra come una patente di simpatia. Ma ciò che davvero manca è il buon senso. È, se vogliamo, la cifra stilistica dell’italianità. Anche nel mondo delle lettere e delle arti: i nostri intellettuali, artisti, cineasti sono provinciali o no?

La domanda ricorre da decenni e ritorna con cadenza. Questa volta si deve a quanto è successo alla Mostra del cinema di Venezia : Marco Bellocchio non ha vinto , ha chiosato piccato che non parteciperà più ai festival e in risposta s’è levato un coro di voci che, più o meno, affermava quanto segue: il cinema italiano non vince semplicemente perché è provinciale, racconta storie minori, chiosa su vicende marginali, si preoccupa del proprio orticello senza sollevare lo sguardo e affacciarsi sull’orizzonte aperto. Lo stesso si dice di letteratura e arti in generale. Sarà. Quella del bel mondo antico, la nostra provincia bella che tanto bene sappiamo raccontare perché in fondo siamo tutti provinciali, è una vecchia retorica che viaggia fra i secoli in buona salute. Ma qui di provinciale c’è poco.

Le storie minori e accessorie sono le storie raccontate un po' in tutto il mondo. Non esiste provincialismo in questo senso. Prendete Andrea Camilleri, da tutti considerato (almeno quando scoppiò il suo caso letterario) ai margini della letteratura, non un vero e proprio scrittore, non troppo "engagé" e nemmeno "radical", solo uno che incuriosiva (più i lettori che i critici) per il suo stile amalgamato fra dialetto siciliano e italiano. Alla faccia dei critici, la sua è diventata una ricetta letteraria: ha messo le radici della sua terra in una letteratura che è stata esportata in tutto il mondo. Con successo. Anzi, di più: ne ha fatto una cifra dell’italianità, riconoscibile ovunque. Alla faccia del provincialismo che gli veniva rinfacciato agli inizi. Insomma, se c’è una perdita di terreno (e c’è) delle italiche menti e spiriti d’ingegno è per via della loro autoreferenzialità, quell’attitudine che ricordava il buon vecchio Leo Longanesi: "È così egocentrico che se va a un matrimonio vorrebbe essere la sposa e a un funerale il morto".

Facciamo un confronto facile facile, con i francesi. Che si può estendere anche al ciclismo. La differenza fra l’intellettualità italiana e francese è la stessa che c’è fra il Tour e il Giro: il fatto che il Tour si corra in Francia non significa automaticamente che debba essere un francese a vincerlo. Lo stesso al Festival di Cannes: ci sono film francesi in concorso, ogni anno, ma nessuno si scandalizza se vince uno straniero. Semplicemente vuol dire che ha fatto un film migliore.

Da noi no. In qualsiasi nostra competizione letteraria o cinematografica che succede se vince uno straniero? Ci arrabbiamo, gridiamo al complotto e così via. Con buona pace di Paolo Conte, non sono i "francesi che s’incazzano". Ecco in cosa siamo davvero provinciali: in quell’attitudine di attesa e di naturale benevolenza che ci aspettiamo dalla nostra Italia, che deve essere più clemente con noi che con gli altri, perché è la nostra nazione, siamo italiani. Salvo poi, va da sé, avere come sport nazionale il parlarne male: è patria quando ci devono premiare, è quel postaccio brutto dove abbiamo avuto la sventura di nascere quando il premiato è un altro. Retaggi fascisti. Sta qui tutta la differenza con i cugini d’Oltralpe: mai uno di loro esprimerà un sentimento antifrancese.

Un italiano è cosmopolita soltanto nel senso che è un uomo che parla bene di tutti i posti tranne casa sua. Più che all’uomo di mondo, siamo ancora al cortegiano dei palazzi ducali rinascimentali. L’Italia che è fuori dal mondo è quella dell’italianità peggiore, quella del "lei non sa chi sono io", l’Italietta dei talenti (perché ce ne sono) imbarbariti che tutto vogliono e tutto pretendono. Povera Italia.

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