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Arte. Leonardo: come lo vedo io

Vittorio Sgarbi ci accompagna alla scoperta di un Leonardo nuovo, dal Cenacolo, alla Dama con l'ermellino alla Gioconda

Ho la convinzione che, nonostante le riserve di alcuni, Giorgio Vasari ci abbia dato una rappresentazione particolarmente veridica e credibile della vita e delle opere di Leonardo da Vinci. D’altra parte egli inizia a raccogliere informazioni verso il 1539-40, a meno di vent’anni dalla morte, nel 1519, di un personaggio leggendario anche da vivo. E intanto la sua intuizione, in premessa, indica in Leonardo una natura quasi divina; e, di più, quasi una competizione con Dio nella potenza creativa. Scrive dunque il grande storico dell’arte del Cinquecento: «Grandissimi doni si veggono piovere dagli influssi celesti ne’ corpi umani... Questo lo videro gli uomini in Lionardo da Vinci, nel quale, oltra la bellezza del corpo, non lodata mai a bastanza, era la grazia più che infinita in qualunque sua azione».

Altrettanto convincente, nella definizione del carattere, è il riferimento all’instabilità, alla continua ansia di conoscere: «Veramente mirabile e celeste fu Lionardo, figliuolo di ser Piero da Vinci, e nella erudizione e principii delle lettere arebbe fatto profitto grande, se egli non fusse stato tanto vario e instabile. Perciò che egli si mise a imparare molte cose e, cominciate, poi l’abbandonava».

Così è Vasari a dirci che, curioso di aritmetica e di scienza, Leonardo muoveva «di continuo dubbi e difficoltà al maestro, e bene e spesso lo confondeva». E ancora: «Egli amava la musica, suonava la lira e cantava divinamente allo improvviso», insomma era un cantante popolare, un poeta all’impronta. Ed è ancora Vasari a dirci che, iniziando il suo apprendistato presso Andrea del Verrocchio, e «avendo un intelletto tanto divino e maraviglioso… non solo operò nella scultura e nell’architettura. Ma la professione sua volse che fosse la pittura». I limiti di Leonardo, indicati dal Vasari, sono le sue migliori virtù: il suo dubbio metodico, il suo disinteresse per la perfezione. Leonardo, così grande, fu il genio dell’imperfezione: «Vedesi bene che Lionardo per l’intelligenza dell’arte cominciò molte cose e nessuna mai ne finì, aprendoli che la mano aggiungere non potesse alla perfezione dell’arte nelle cose, che egli si immaginava, conciò sia che si formava nell’idea alcune difficultà suttili e tanto meravigliose, che con le mani, ancora che fussero eccellentissime, non si sarebbono espresse». Tanti furono i suoi capricci, che, «filosofando con le cose naturali, attese a intendere le proprietà delle erbe, continuando et osservando il moto del cielo, il corso della Luna e gl’andamenti del Sole».

Sono tutte importanti definizioni dell’indole, del carattere, della singolarità di Leonardo e hanno molte buone ragioni per essere ritenute credibili e convincenti. Io così lo vedo Leonardo, curioso e insoddisfatto. E anche intuitivo e geniale nel porsi sempre dentro l’inquietudine di un animo sensibilissimo. La religione rappresenta un limite per un animo libero, e Leonardo è un filosofo, un pensatore, che osserva la natura e interpreta anche Dio come un fenomeno naturale. Stabiliti questi principi generali, Vasari inizia a osservare e a illustrarvi le opere, le quali spesso non hanno altri documenti che le sue descrizioni.

S’inizia con la prima: Il battesimo di Cristo di Andrea del Verrocchio (1472), nel quale è evidentissimo, attraverso le parole di Vasari, l’inserto mirabile del giovane Leonardo, con tanta mortificazione da parte del maestro: «Acconciossi per via di Ser Piero suo zio nella sua fanciullezza a l’arte con Andrea del Verocchio, il quale faccendo una tavola dove San Giovanni battezzava Cristo, Lionardo lavorò uno angelo, che teneva alcune vesti; e benché fosse giovanetto, lo condusse di tal maniera, che molto meglio de le figure d’Andrea stava l’angelo di Lionardo. Il che fu cagione ch’Andrea mai più non volle toccare colori, sdegnatosi che un fanciullo ne sapesse piú di lui».

Non sono molte le opere certe di Leonardo, e tutte quelle puntualmente commentate dal Vasari sono state identificate o attendono credibilmente di essere riconosciute. Leonardo appare come un mago, e comunque un uomo straordinario cui accadono cose sorprendenti. «Portò dunque Lionardo per questo effetto ad una sua stanza, dove non entrava se non è solo, lucertole, ramarri, grilli, serpi, farfalle, locuste, nottole et altre strane spezie di simili animali: da la moltitudine de’ quali, variamente adattata insieme, cavò uno animalaccio molto orribile e spaventoso, il quale avvelenava con l’alito e faceva l’aria di fuoco».

Abbiamo, grazie a Vasari, la descrizione di opere mirabili che non abbiamo più e anche la conferma di opere capitali come la Madonna del garofano dell’Alte Pinakothek di Monaco di Baviera (1478-80), altrimenti non certificate: «Fece poi Lionardo una Nostra Donna in un quadro, ch’era appresso Papa Clemente VII, molto eccellente. E fra l’altre cose che v’erano fatte, contrafece una caraffa piena d’acqua con alcuni fiori dentro, dove oltra la maraviglia della vivezza, aveva imitato la rugiada dell’acqua sopra, sí che ella pareva piú viva che la vivezza».

Finito il primo, fertile e meraviglioso periodo fiorentino, troviamo Leonardo a Milano, per un lungo periodo (1482-99) di imprese e meraviglie che rappresentano come una seconda vita. Così Vasari: «Fu condotto a Milano con gran riputazione Lionardo al Duca Francesco, il quale molto si dilettava del suono de la lira, perché sonasse: e Lionardo portò quello strumento, ch’egli aveva di sua mano fabricato d’argento gran parte, accioché l’armonia fosse con maggior tuba e piú sonora di voce. Laonde superò tutti i musici, che quivi erano concorsi a sonare; oltra ciò fu il migliore dicitore di rime a l’improviso del tempo suo. Sentendo il duca i ragionamenti tanto mirabili di Lionardo, talmente s’innamorò de le sue virtù, che era cosa incredibile. E pregatolo, gli fece fare in pittura una tavola d’altare, dentrovi una Natività che fu mandata dal duca a l’imperatore».

Anche in questo caso l’indicazione è preziosa, perché Vasari ci ricorda la meravigliosa Vergine delle rocce, probabilmente dipinta nei primi anni del soggiorno milanese, tra il 1483 e il 1486. Nel periodo milanese molte sono le sperimentazioni e, fra queste, un grande monumento equestre inevitabilmente incompiuto ma di cui restano mirabili disegni: «Mentre che egli attendeva a questa opera propose al duca fare un cavallo di bronzo di maravigliosa grandezza, per mettervi in memoria l’imagine del duca. E tanto grande lo cominciò e riuscì, che condur non si poté mai. Ècci opinione che Lionardo, come dell’altre cose sue faceva, lo cominciasse perché non si finisse; perché, sendo di tanta grandezza in volerlo gettar d’un pezzo, lo cominciò, acciò fosse difficultà di condurlo a perfezzione».

Milano è anche il luogo degli affetti: qui incontra e forma e ama i suoi giovani allievi, belli come gli angeli dei suoi dipinti: «Prese in Milano Salaì Milanese per suo creato, il quale era vaghissimo di grazia e di bellezza, avendo begli capegli, ricci et inanellati, de’ quali Lionardo si dilettò molto; et a lui insegnò molte cose dell’arte, e certi lavori che in Milano si dicono essere di Salaì, furono ritocchi da Lionardo».

Ma Leonardo si applica anche a straordinarie e assolute immagini femminili, che saranno paradigmi per la pittura di Raffaello. Mi riferisco in particolare alla Dama con l’ermellino (1485-90) ora al Museo nazionale di Cracovia, il ritratto di Cecilia Gallerani, la donna amata da Ludovico il Moro. L’interpretazione di Leonardo è assolutamente originale, anche se forse mostra attenzione per un’opera unica come l’Annunciata di Antonello da Messina (1475), con cui condivide il fondo nero, a indicare la concentrazione e l’intensità di un pensiero assoluto. Per l’Annunciata il pensiero di Dio, il destino unico di esserne madre; per la Dama con l’ermellino la dedizione a un uomo solo, cui indirizza il suo sguardo esclusivo ignorando chiunque altro ed evitando di guardare in camera, di misurarsi con il pittore. Gli anni milanesi sono anche quelli del Cenacolo, un’invenzione assoluta che, per la prima volta, rappresenta stati e moti d’animo in una rappresentazione che articola, nello spazio prospettico dell’aula, gli apostoli in quattro gruppi di tre, con dinamiche interne che indicano situazioni psicologiche diverse. Tutto questo si avverte, pur nelle lamentevoli condizioni dell’opera, capricciosamente dipinta non a fresco ma a secco, riducendosi a una larva, a un fantasma, con meno del 30 per cento di quello che fu, quasi una sindone, un’impronta, rispetto al corpo perduto.

«Fece ancora in Milano ne’ frati di San Domenico a Santa Maria de le Grazie un Cenacolo» scrive Vasari, «cosa bellissima e maravigliosa, et alle teste de gli Apostoli diede tanta maestà e bellezza, che quella del Cristo lasciò imperfetta, non pensando poterle dare quella divinità celeste, che a l’imagine di Cristo si richiede. La quale opera, rimanendo così per finita, è stata dai Milanesi tenuta del continuo in grandissima venerazione, e da gli altri forestieri ancora, atteso che Lionardo si imaginò e riuscigli di esprimere quel sospetto che era entrato ne gli Apostoli, di voler sapere chi tradiva il loro Maestro. Per il che si vede nel viso di tutti loro l’amore, la paura e lo sdegno, o ver il dolore, di non potere intendere lo animo di Cristo. La qual cosa non arreca minor maraviglia, che il conoscersi allo incontro l’ostinazione, l’odio e ’l tradimento in Giuda».

L’impresa fu compiuta tra il 1495 e il 1499. Alla fine dell’esperienza milanese Leonardo passa a Venezia dove resterà per un tempo breve ma lasciando, anche grazie al suo valoroso allievo, Giovanni Agostino da Lodi, una durevole traccia, che si ritrova nelle opere del maturo Giovanni Bellini e del giovane Giorgione. Nel 1501 ritroviamo Leonardo a Firenze, carico di gloria e di onori, ormai divenuto un «mostro sacro». «Ritornò a Fiorenza, dove trovò che i frati de’ Servi avevano allogato a Filippino l’opere della tavola dello altar maggiore della Nunziata; per il che fu detto da Lionardo che volentieri avrebbe fatto una simil cosa. Onde Filippino inteso ciò, come gentil persona ch’egli era, se ne tolse giù; et i frati perché Lionardo la dipignesse, se lo tolsero in casa, facendo le spese a lui et a tutta la sua famiglia. E così li tenne in pratica lungo tempo, né mai cominciò nulla. In questo mezzo fece un cartone dentrovi una Nostra Donna et una Santa Anna, con un Cristo, la quale non pure fece maravigliare tutti gli artefici, ma finita ch’ella fu, nella stanza durarono duoi giorni di andare a vederla gli uomini e le donne, i giovani et i vecchi, come si va a le feste solenni, per vedere le maraviglie di Lionardo, che fecero stupire tutto quel popolo. Perché si vedeva nel viso di quella Nostra Donna tutto quello che di semplice e di bello può con semplicità e bellezza dare grazia a una madre di Cristo; volendo mostrare quella modestia e quella umiltà che in una vergine contentissima di allegrezza del vedere la bellezza del suo figliuolo, che con tenerezza sosteneva in grembo (...).».

A Firenze dipinge anche l’affresco perduto sulla battaglia d’Anghiari (1505-1507) un’invenzione grandiosa di cui rimangono alcuni disegni. Le opere e l’ispirazione di Leonardo vengono rarefacendosi, ma la sua concentrazione spirituale lo porta all’assoluto capolavoro.

L’opera capitale della piena maturità, tra 1503 e 1508, la Gioconda. È un ritratto senza precedenti che non riproduce una persona ma la crea, viva, davanti a noi: «Prese Lionardo a fare per Francesco del Giocondo il ritratto di Mona Lisa sua moglie; e quattro anni penatovi lo lasciò imperfetto (...); nella qual testa chi voleva vedere quanto l’arte potesse imitar la natura, agevolmente si poteva comprendere». E quella beatitudine, quel compiacimento di sé, quella coscienza della sua perfezione nella natura, sono la novità assoluta di questo ritratto, «con la incarnazione del viso che non colori ma carne pareva veramente».

Per questo risultato Leonardo trovò un espediente geniale: «Usòvi ancora questa arte, che essendo Mona Lisa bellissima, teneva mentre che la ritraeva, chi sonasse o cantasse, e di continuo buffoni che la facessino stare allegra, per levar via quel malinconico che suol dare spesso la pittura a i ritratti che si fanno». Ne esce una espressione di gioia interiore, senza precedenti: «Et in questo di Lionardo vi era un ghigno tanto piacevole che era cosa più divina che umana a vederlo, et era tenuta cosa maravigliosa, per non essere il vivo altrimenti».

All’opposto della Dama dell’ermellino, la Gioconda è la donna di tutti, che per ognuno ha uno sguardo, una benevola attenzione, come un’immagine sacra, una Madonna pellegrina. Di tutti e di nessuno, e certo non di uno. Negli anni estremi, vecchio e malato, Leonardo si rigenera in un’opera freschissima, forse il suo capolavoro, portando a compimento pittorico il cartone con la Sant’Anna e la Madonna, ora alla National Gallery di Londra. Si tratta della Sant’Anna, Madonna con il bambino e l’agnello (1510-12) ora al Louvre, dipinta negli anni del soggiorno francese, proprio perché il re di Francia «avendo avuto opere sue, gli era molto affezzionato, e desiderava ch’è colorisse il cartone della Santa Anna».

Così nasce il dipinto del Louvre, quasi interamente compiuto, capolavoro di Leonardo, nell’affettuosità dei volti delle due donne,proiettate contro il meraviglioso paesaggio. Tornato giovane e senza tempo, Leonardo, in questo capolavoro, può congedarsi, scegliendo di spegnersi fra le braccia del re di Francia, così come lo vediamo nell’Autoritratto, databile intorno al 1515 e conservato alla Biblioteca reale di Torino, con il volto che Raffaello darà a Platone nella Scuola di Atene. Un sapiente tra Omero e Borges.

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