E se l'arte contemporanea fosse un bluff?
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E se l'arte contemporanea fosse un bluff?

L'ultimo a insinuarlo è stato il New York Times contando i "pallini" di Damien Hirst. Una favola, quella degli artististar, che potrebbe finire male

Quello dell’arte contemporanea è un sistema quasi perfetto. "Una macchina colossale in grado di determinare valutazioni iperboliche anche per artisti che si affacciano per la prima volta al mercato" l’ha definita un finanziere come Francesco Micheli introducendo un libro appena pubblicato (Investire nell’arte, di Claudio Borghi Aquilini). Una macchina spinta da strategie di marketing e retta su un’alleanza tra grandi case d’aste, direttori di musei, critici d’artefondi d’investimento specializzati, riviste di settore, collezionisti miliardari (e non propriamente filantropi), grandi gallerie ormai simili a multinazionali dell’arte. 

Gli artisti, cuore di questo sistema, sono star mediatiche e oggetti del desiderio di un’oligarchia globale, disposta a tutto pur di possedere opere che sono status symbol. Persino la crisi sembra un orizzonte remoto, tant’è vero che il 15 maggio scorso Christie’s a New York ha strappato il risultato d’asta più ricco di sempre: quasi mezzo miliardo di dollari in una sera. Il sistema non ammette battute d’arresto e deve alimentare il mercato sfornando nuove star: ultimo caso quello di Rudolf Stingel, l’artista altoatesino protagonista di una mostra davvero molto enfatica nel Palazzo Grassi del "principe" François Pinault, i cui prezzi alle recenti aste sono subito schizzati, come da copione (superato il milione di dollari a maggio).

Sembrano elementi di una fiaba, di quelle che fanno sognare, tra principi azzurri, eroi sbucati dal nulla e tesori senza fondo a cui attingere. Delle belle fiabe si dà sempre per certo il lieto fine; invece intorno alla fiaba dell’arte contemporanea qualche dubbio su che ne sarà di questi valori fra 20 o 30 anni qualcuno inizia a porselo. Francesco Bonami, critico che certamente è fra i protagonisti del sistema, ha annunciato di lavorare a un libro che sin nel titolo parlerà della fine dell’arte contemporanea. Damien Hirst, l’artista simbolo che aveva strappato valutazioni folli, si è trovato per la prima volta sulla difensiva, accusato dal New York Times di avere perso il conto dei suoi "spot painting", tele di tutte le dimensioni dipinte solo di pallini colorati. Maurizio Cattelan, facendo leva sull’ironia che lo ha sempre contraddistinto, ha pensato di proclamare la conclusione della propria carriera di artista.

Ma tutte le fiabe hanno un risvolto crudele. E questa sta soffocando quel rapporto fra gallerie e appassionati da cui è venuto il meglio del collezionismo del Novecento. Come ha avvertito Massimo De Carlo, presidente dei galleristi italiani, le grandi case d’aste con mezzi spropositati a disposizione stanno mangiando il mercato. Il collezionista è diventato un compratore seriale, raggiunto in ogni angolo del pianeta, che non sceglie per gusto o per coerenza ma pronto a mettere i suoi "like" anche a sette zeri sulle opere che la macchina perfetta gli propone. Per questo c’è chi s’augura che la macchina perfetta s’inceppi. In fondo, se la bolla scoppiasse, sarebbe un giusto finale. (Giuseppe Frangi)

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