‘L’arte come terapia’: un saggio per una vita più serena
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‘L’arte come terapia’: un saggio per una vita più serena

Ecco come i grandi capolavori possono aiutarci ad affrontare le nostre fragilità e debolezze, nel libro di Alain de Botton e John Armstrong

È innegabile che l’espressione artistica, in qualsiasi forma la si incontri, scateni in chi la osserva qualcosa che va oltre l’esperienza diretta. Senza arrivare ai livelli della ragazza approcciata da Woody Allen di fronte a un Pollock in Provaci ancora Sam, quante volte uscendo da una mostra o da un concerto, o alla fine di un libro, ci si sente in qualche modo appagati, più sereni (o talvolta turbati)?

L’arte sembra dunque avere un ruolo che va oltre “l’arte per l’arte”, registrabile proprio grazie agli stati d’animo che si manifestano durante la sua creazione e fruizione. Il libro L’arte come terapia di Alain de Botton e John Armstrong (in uscita per Guanda dal 14 novembre) tenta in questo senso di dimostrare la natura strumentale dell’arte, capace di estendere le capacità umane al di là della naturale dotazione, compensando le debolezze mentali, altrimenti dette fragilità psicologiche.

I due autori aprono con un lungo capitolo dedicato alla metodologia, in cui individuano quelle che secondo loro sono le sette funzioni: memoria, speranza, dolore, riequilibrio, conoscenza di sé, crescita e apprezzamento. In questa parte provano anche a proporre nuovi approcci riguardo a come si dovrebbe fare arte, come si dovrebbe acquistare e vendere, come studiarla e come esporla. Continuano quindi con una sezione in cui tentano di mettere in pratica il metodo, analizzando un campione di situazioni tra le più comuni, di fronte alle quali si manifestano stati emozionali e mentali impegnativi: amore, denaro, natura e politica. E lo fanno ovviamente aiutandosi con decine di opere di diverse epoche e correnti, dall’arte primitiva a quella contemporanea.

L’arte come terapia scorre veloce ed è comprensibile anche per chi non mastica troppo la materia. E se alla fine del libro non ci si sente convinti, rimane comunque la sensazione di aver attraversato una sorta di museo virtuale organizzato attraverso un originale punto di vista, in cui opere eterogenee per periodo e stile sono state accostate secondo una chiave di lettura fuori dai canoni.

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Andrea Bressa